di

James M. Skinner

da Journal of Military History, vol. 55, n. 4, Ottobre 1991, pp. 507-516

traduzione di Gianluca Freda

 

 

 

“Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità”. Questo detto del giornalista William Howard Russell sulla “gestione dell’informazione” durante la guerra di Crimea resta vero oggi quanto lo era un secolo e mezzo fa. L’invenzione del cinema negli anni ’90 dell’Ottocento ha incrementato enormemente la possibilità di distorcere la verità in tempo di guerra.

La strada venne indicata per la prima volta da J. Stuart Blackton, che nel 1898 mise a galleggiare alcuni modellini di nave nella sua vasca da bagno, li incendiò e poi presentò il risultato ad un pubblico entusiasta ma credulone come La battaglia di Manila Bay. Quello stesso anno i fratelli Lumiere intrattenevano le platee d’Europa con quella che veniva presentata come l’incarcerazione del capitano Dreyfus sull’Isola del Diavolo, anche se l’isola era in realtà una cava di sabbia sul delta del Nilo e “Dreyfus” era in realtà un anonimo ufficiale che sfilava a Parigi. Attraverso una ripetizione incessante, immagini completamente fasulle vennero radicate nella coscienza collettiva come resoconti reali degli eventi. Ad esempio, chi riesce a pensare all’assalto al Palazzo d’Inverno di Pietrogrado del 1917 senza visualizzare la celebre sequenza di Ottobre di Sergej Eisenstein, che fu girato dieci anni dopo e non conteneva neppure un singolo fotogramma di materiale filmato autentico, visto che tale materiale non esisteva? E che dire di quell’oscura figura inquadrata di tre quarti, spacciata come l’Imperatore Haile Selassie che si doleva del fato dell’Abissinia con un comprensivo intervistatore in The March of Time [serie di documentari cinematografici realizzati tra il 1935 e il 1951, NdT]? Poiché il Leone di Giuda era irreperibile, al suo posto fu reclutato un attore, senza che i produttori fornissero al pubblico il minimo avviso sul sotterfugio utilizzato.

Ma di tutte le immagini fabbricate appositamente per lo schermo, quelle dell’attacco a Pearl Harbor e ai suoi quartieri in quella memorabile domenica del 1941 restano le più profondamente scolpite nella memoria collettiva. A causa dell’enorme rilevanza storica dell’evento, e grazie ad una ripetizione incessante, esse sono diventate la documentazione filmata universalmente condivisa del Giorno dell’Infamia, apparsa in serie di documentari prestigiose quali Why We Fight e Victory at Sea. Eppure ogni loro singolo fotogramma è fasullo quanto le ricostruzioni di Eisenstein. Ancor meno noto è il fatto che quelle immagini vennero estratte da un film che fu immediatamente eliminato dalla circolazione dopo le prime proiezioni e in seguito non venne più presentato. La storia di questo lungometraggio, Il 7 dicembre, ha un suo intrinseco interesse come esempio di propaganda sulla II Guerra Mondiale risoltasi in un fiasco clamoroso. La sua sorte consente anche di far luce sulla confusa situazione in cui venne a trovarsi il governo degli Stati Uniti quando si trovò costretto a entrare nel settore della propaganda, spinto dalla forza delle circostanze, dopo Pearl Harbor. [1]

Quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbor, Hickam Field e altre installazioni militari di Oahu, non era presente nessun cameraman americano a riprendere la devastazione mentre essa veniva perpetrata. Ciò è facilmente spiegabile sia per il carattere “a sorpresa” dell’attacco, sia per l’ora del giorno in cui esso avvenne, poco prima delle 8.00 di una domenica mattina. Tutto ciò che si riuscì a riprendere – le carcasse delle navi in fiamme, gli edifici incendiati, i feriti che venivano soccorsi dove si trovavano – ammontava in tutto a cinque o sei minuti di immagini filmate. [2] Per essere precisi, esistevano anche delle riprese aeree girate dai cameramen giapponesi, ma esse rimasero irreperibili fino a guerra inoltrata.

La genesi del progetto che fu poi denominato Il 7 dicembre è da ricercarsi nella decisione presa nell’autunno del 1939 da John Ford. Ford faceva parte di quella manciata di registi cinematografici il cui nome significava qualcosa per il pubblico che a quell’epoca frequentava le sale. Aveva al suo attivo una sfilza di successi commerciali e aveva da poco vinto l’Oscar per il film Furore (1940). Nato nel 1894, Ford aveva cercato di arruolarsi nella Marina degli Stati Uniti subito dopo che Woodrow Wilson aveva dichiarato guerra alle Potenze Centrali, ma era stato scartato a causa di certi problemi alla vista. Grazie ai contatti e alle conoscenze di suo padre, era stato assunto come fotografo nei reparti aviotrasportati della US Navy, ma con sua grande delusione questo incarico non gli era stato più confermato dopo l’Armistizio. [3]

Comprendendo che sarebbe stato troppo avanti con l’età per ricoprire ruoli di combattimento in caso di coinvolgimento americano nella II Guerra Mondiale, egli si rivolse a un vecchio amico, il colonnello William B. "Wild Bill" Donovan, chiedendogli di istituire una Unità Fotografica da Campo non appena in Europa fossero scoppiate le ostilità. Questa unità avrebbe operato sotto l’egida del nascente Office of Strategic Services (O.S.S., la futura CIA) di cui Donovan era a capo. Costituita in gran parte da tecnici di Hollywood dell’età di Ford e anche più anziani, essa era, per usare le parole di Ford, “pronta a recarsi ovunque” e a riprendere qualunque cosa che contribuisse allo sforzo bellico, se e quando gli Stati Uniti fossero entrati in guerra. La catena di comando era molto semplice, e in questo risiede probabilmente la causa del disastro de Il 7 dicembre. Ford rispondeva esclusivamente a Donovan, il quale, a sua volta, riferiva direttamente alla Casa Bianca. Quando Donovan propose un lungometraggio su Pearl Harbor ai ministri della marina e della guerra, egli aveva in mente di realizzare una cronaca fedele tanto della terribile distruzione di quel giorno quanto del lavoro erculeo che era stato successivamente attivato per rattoppare le navi sopravvissute e metterle in condizione di riprendere la loro attività, in certi casi dopo sole tre settimane dall’attacco. Quando a Ford venne chiesto di scegliere un regista, egli fece il nome di Gregg Toland [4]. Toland (1904-1948) era entrato nel mondo del cinema nel 1920, come tuttofare presso gli uffici della Fox Pictures. Nei primi anni ’30 era stato acclamato come uno dei migliori cameramen di Hollywood.

Toland, che all’epoca aveva trentotto anni, si era già guadagnato una formidabile reputazione come cameraman. Il suo lavoro su Cime tempestose di William Wyler gli aveva procurato un Oscar ed egli godeva di grande stima negli ambienti professionali per le innovative tecniche di ripresa con profondità di campo utilizzate per Quarto potere di Orson Welles. Come molti del suo ambiente, Toland aspirava alla poltrona di regista. Con poche o nessuna direttiva da parte di Ford e Donovan, nel febbraio 1942 egli si recò alle Hawaii per girare alcune sequenze di “location”. Ritornò a Hollywood, dove la Twentieth-Century Fox gli mise a disposizione uno studio per le riprese e le attrezzature di laboratorio. Da allora fino al settembre 1942, Toland girò 11.500 metri di pellicola, che tagliò poi a 2.700 per un film della durata di 83 minuti. Il format era quello di un semi-documentario, che mescolava personaggi fittizi con protagonisti “autentici”. Tre dei più noti attori di Hollywood, Walter Huston, Harry Davenport Jr. e Dana Andrews vennero chiamati a interpretare i ruoli principali.

Il film inizia il 6 dicembre con uno stanco, agitato Zio Sam (“U.S.”, interpretato da Walter Huston) che cerca di riposarsi a Honolulu dopo un anno di crisi internazionali che hanno messo a dura prova la sua resistenza. Il discorso al suo segretario sulla bellezza e tranquillità delle isole ("Hawaii, T.H.- Territory of Heaven") viene improvvisamente interrotto dall’apparizione della sua coscienza, Mr. C (Harry Davenport), sorta di avvocaticchio di paese la cui giovialità cela un razzismo che il fascino dell’eloquio non riesce a rendere meno agghiacciante. Mentre U.S. esalta estasiato l’impegno e la perseveranza del manipolo di uomini d’affari americani che è riuscito a creare una prospera industria di zucchero e ananassi da un arido deserto, Mr. C gli rammenta che si è dimenticato della manodopera, in particolare quella giapponese, che rappresenta il gruppo etnico più diffuso sulle isole. Un sinistro prete scintoista, interpretato dall’attore coreano Philip An, afferma che la lealtà di ogni nippo-americano va prima di tutto al suo imperatore, Hirohito:

“Egli è l’immagine terrena del nostro destino imperiale… lo scintoismo predica l’onore degli antenati, tenendo così acceso il fuoco del nazionalismo e preservando il legame razziale e sociale con l’invitta Dinastia Imperiale e la sua divina discendenza. Essere scintoisti significa essere giapponesi. Non è, e non può essere, una questione di scelte. E’ un dovere”.

Per analogia, spiega Mr. C, è come se i cittadini degli Stati Uniti fossero tenuti ad adorare George Washington e i suoi successori alla presidenza. E quando U.S. domanda alla sua coscienza se sta cercando di dire che tutti i nippo-americani sono sleali, Davenport risponde con parole simili a quelle usate da Milton Eisenhower e dalla War Relocation Authority che a quell’epoca stava deportando decine di migliaia di giapponesi dalla costa ovest: “Oh no, certo che no. Né io, né chiunque altro, si permetterebbe mai di distinguere chi è sleale da chi è leale. Sto solo esponendo i fatti”. Nonostante ciò, le sequenze immediatamente successive sembrano suggerire che le isole pullulano di giapponesi sovversivi, assistiti da un manipolo di spie naziste. Alcune parrucchiere, un giardiniere che sta potando una siepe fuori da una lavanderia dell’esercito, un tassista e una ballerina trascrivono e registrano ogni parola che viene pronunciata. Spiano Pearl Harbor con dei binocoli e trasmettono le informazioni attraverso una radio nascosta. In questa sequenza c’è un granello di verità. Ci fu effettivamente una trasmissione di informazioni sulle basi americane da parte del personale del consolato giapponese; ma non si trattò di un compito particolarmente oneroso, perché i giornali locali, senza saperlo, collaborarono volentieri. I regolari rapporti del console giapponese – il generale Kiichi Gunji – sul numero, sulla posizione e sulle attività dei vascelli della marina americana alle Hawaii si fondavano in gran parte sugli articoli dello Star Bulletin di Honolulu, che descriveva nel dettaglio le dimensioni e i movimenti delle navi da guerra americane dentro e fuori dalla base, citando nomi e tempi esatti di partenza e di arrivo. [5] Un console tedesco si vanta, con tanto di sieg-heil, del fatto che un suo informatore ha intercettato una innocente conversazione e come risultato un cacciatorpediniere americano giace adesso in fondo all’Atlantico.

Tuttavia, Toland finisce per commettere quello che è il peccato mortale nella propaganda di guerra, mostrando anche l’altra faccia della medaglia. Viene presentato un commovente discorso patriottico da parte di un membro della comunità nippo-americana e più avanti nel film si vedono alcuni giapponesi che comprano “war bonds” e effettuano donazioni alla banca del sangue dopo l’inizio delle ostilità.

Segue la ricostruzione dell’attacco a Pearl Harbor e alle adiacenti installazioni militari. Qui un tecnico degli effetti speciali, Ray Kellogg, creò quelle illusioni che sarebbero poi divenute realtà documentaria. Alcuni attori recitano il ruolo degli uomini del tenente Joseph Lockard, che intercettarono i primi segnali radio degli aerei in arrivo, e delle decine di vittime anonime le cui morti, di spettacolare drammaticità, vengono registrate da macchine da presa “casualmente” posizionate in loco e con perfetta focalizzazione. I fondali dipinti e la retroproiezione conferiscono agli attacchi una vividezza eccitante, sebbene assolutamente fasulla.

Per aggirare lo spiacevole inconveniente che non c’erano aerei giapponesi a disposizione, Toland e Kellogg fecero dipingere le insegne giapponesi su aerei americani. Modellini in scala della U.S.S. Arizona e delle altre navi vennero fatti esplodere ottenendo effetti spettacolari. E per conferire un demoniaco tocco personale al tradimento che impazza tutt’intorno, il forbito console giapponese, che abbiamo già visto scambiare segreti militari coi suoi colleghi nazisti, nega categoricamente di essere stato avvertito degli attacchi quando un giornalista glielo chiede. Sovraimpresse su una cartina del Giappone, si vedono torri radio innalzarsi su varie città, mentre un dragone, già visto in precedenza all’entrata di un tempio scintoista di Honolulu, appare sullo sfondo come un funesto presagio.

Con una vocetta cantilenante, che sarebbe diventata fastidiosamente familiare alle platee cinematografiche come accento giapponese “ufficiale”, Tokyo proclama la totale vittoria. Una voce narrante afferma di dissentire e all’improvviso immagini (autentiche) di navi e macchinari rimessi a nuovo riempiono lo schermo, prova concreta che la nazione ha appena iniziato a combattere e che “chi di spada ferisce, di spada perisce”. Nell’epilogo il fantasma di un marinaio, vittima di Pearl Harbor (Dana Andrews), si rivolge al pubblico dal Cimitero Nazionale di Arlington. Il suo discorso viene interrotto da un soldato della I Guerra Mondiale, il cui cinismo è in netto contrasto con l’ottimismo del marinaio. Il tontolone profetizza con toni cupi una Terza Guerra Mondiale che farà seguito a questa, perché gli Stati Uniti torneranno a rinchiudersi nel loro guscio isolazionista come avevano fatto dopo il 1919; “L’America ha deciso che loro [sic] non volevano giocare nel campionato di serie A e hanno lasciato Wilson in terza base”. Ma Andrews non si fa attendere. Riprendendo la metafora del baseball, dichiara di voler scommettere sui Roosevelt, sui Churchill, sugli Stalin e sui Chang Kai-shek che renderanno il mondo un posto sicuro:

“Sicuro, e basta. Sicuro per la continuazione della nostra democrazia; sicuro per ogni altra nazione che desideri vivere secondo un codice di leggi, quale che sia il suo nome, purché essi [sic] siano capaci di chiamare valida una palla valida e fallosa un’azione fallosa. Questa volta sarà lo Zio Sam a lanciare. E quando la partita sarà finita, un sacco di gente tornerà alla casa base e farà un sacco di domande”.

E’ dubbio che Il 7 dicembre avrebbe mai potuto essere presentato nella sua versione non tagliata, ma di certo il suo destino fu segnato da un’iniziativa presa dal governo mentre il film era ancora in fase di produzione. La giustificazione ufficiale dell’Ordine Esecutivo del 13 giugno 1942, con cui si istitutiva l’Office of War Information (OWI, Ufficio per l’Informazione di Guerra), era quella di “riconoscere il diritto del popolo americano e di tutti i popoli che si oppongono agli oppressori dell’Asse ad essere veridicamente informati sullo sforzo bellico comune” [6]. In realtà l’OWI si trasformò rapidamente in una poderosa macchina di propaganda mista a censura, uno dei cui numerosi tentacoli, il Bureau of Motion Pictures, controllò accuratamente i contenuti delle opere cinematografiche per tutta la durata della guerra. A Hollywood funzionari dell’OWI partecipavano alle discussioni sulle sceneggiature, offrendo suggerimenti e sollevando obiezioni sugli elementi che ritenevano contrari alla politica del governo. [7]

E’ difficile che due individui riescano a mettersi completamente d’accordo sui motivi che rendevano il film di Toland così insoddisfacente, ma tutti concordano sul fatto che esso presentasse alcune gravi carenze. Il primo sentore che qualcosa non andava arrivò quando Nelson Poynter, capodipartimento di Hollywood, visionò alcuni ciak nella prima settimana del novembre 1942, quando Toland e Sam Engel avevano già scritto la versione definitiva della sceneggiatura e la musica di Alfred Newman era già stata aggiunta. [8] Poynter era così preoccupato che chiese al suo superiore, Lowell Mellett, di tornare indietro da Washington per dargli un secondo parere. [9] Mellett fu della sua stessa opinione, e in alcune comunicazioni inviate ai ministri della guerra e della marina chiese che il progetto fosse immediatamente bloccato, non solo perché il film era pessimo in sé, ma anche perché a suo avviso il governo non avrebbe dovuto occuparsi della realizzazione di film di finzione, soprattutto se riguardavano argomenti di così evidente rilevanza storica. Forse si sarebbe potuto salvare qualcosa di quella debacle per un cortometraggio sul secondo anniversario di Pearl Harbor, da far uscire l’anno successivo. [10]

Julian Johnson, responsabile di produzione della Twentieth Century Fox, nel cui studio hollywoodiano sulla Western Avenue era stata girata buona parte del film, lo definì invece “di gran lunga il più poderoso film di guerra americano che io abbia mai visto”, ma si lamentò della scomparsa di U.S. e Mr. C nel corso del racconto:

“Dopo aver costruito due personaggi così convincenti e credibili… credo che sia un peccato abbandonarli all’alba del 7 dicembre. Io tornerei almeno brevemente sul protagonista, mentre si dissolve l’ultimo fragore dell’ultimo assalto. Furibondo, togliendosi l’impermeabile, arrotolandosi le maniche, riconosce rabbiosamente che la Coscienza aveva ragione, la spinge da parte e si precipita fuori dalla casa come un toro possente e ferito nell’arena toreale”.

Johnson pensava anche che, a dirla tutta, la storia del cimitero fosse un pessimo anticlimax e che avrebbe dovuto essere eliminata [11]. Il ministro della Marina, Frank Knox, forse con lo sguardo rivolto alle politiche ufficialmente definite sul continente, considerava imbarazzanti le affermazioni ultra-patriottiche della comunità nippo-americana [12]. Ma la condanna più pesante venne dall’Ammiraglio Harold Stark, capo delle operazioni navali all’epoca di Pearl Harbor, poi comandante delle forze navali USA nello scenario di guerra europeo. Egli venne in difesa del suo collega, Ammiraglio Husband Kimmel, la cui reputazione di comandante in capo quel maledetto giorno di Pearl Harbor sarebbe stata ulteriormente infangata se il film fosse uscito. Kimmel era stato sollevato dal comando nove giorni dopo l’attacco ed era naturalmente al centro della controversia che infuriava sull’impreparazione della flotta. Stark scriveva:

“E’ vero che è stata presa ogni precauzione per prevenire il sabotaggio interno, ma è falso che la flotta navale americana non si trovasse in mare, perché è lì che era; inoltre i PBY della marina [gli aerei-nave della marina americana, NdT] si trovavano in volo di ricognizione… Come riferii quella sera al Presidente, le nostre forze non erano affatto impreparate, nonostante la distruzione subìta. Il film lascia con la netta sensazione che la marina non stesse facendo il suo lavoro, e questo non è vero. Inoltre buona parte dei danni fu causato dagli aerei lanciamissili giapponesi e questo nel film non viene mostrato. Non mi preoccupano le piccole imprecisioni, ma si farebbe gran danno e si sveglierebbero molti cani che dormono se il film uscisse così come è ora, dando l’impressione che la flotta americana stesse dormendo”. [13]

Secondo Robert Parrish, che avrebbe ridotto Il 7 dicembre dalla sua lunghezza originaria alla versione da 33 minuti che nel 1943 fruttò a Ford il suo quarto Oscar per il miglior documentario, Toland restò distrutto dalla quasi unanime negatività delle reazioni e cadde in una sorta di depressione. Quando si riprese, chiese di essere mandato in servizio il più lontano possibile da Washington e dai suoi malevoli burocrati. Il suo desiderio fu esaudito ed egli trascorse il resto della guerra nell’Unità Fotografica da Campo di Rio de Janeiro. [14]

Nel dicembre 1942 la baraonda era arrivata fino alla Casa Bianca. Roosevelt ordinò, con apposita direttiva, che tutte le produzioni esistenti delle Unità Fotografiche da Campo fossero sottoposte alla revisione preliminare dell’OWI, per evitare il ripetersi di un fiasco potenzialmente così dannoso per la morale pubblica. Le immagini promozionali de Il 7 dicembre rimasero letteralmente sotto chiave fino alla primavera successiva, quando Ford ritornò dal Nord Africa. Egli decise che bisognava offrire al governo qualcosa in cambio degli 80.000 dollari investiti nel film. Il risultato fu la versione rifatta di cui si è parlato prima, in cui era stato eliminato tutto tranne i filmati degli attacchi e quelli dei salvataggi.

Dal punto di vista contemporaneo, Il 7 dicembre merita l’attenzione degli storici del cinema per qualcosa di più che la sua fosca reputazione di scheletro cinematografico rimasto nella tomba per quasi mezzo secolo. In tutte le critiche contemporanee all’opera di Toland, ben poco è stato detto, o forse poteva essere detto, sul suo completo fallimento come film di propaganda, in parole povere, sulla sua inerzia e inconcludenza.

La vera propaganda cinematografica deve polarizzare, rafforzare i concetti; deve rendere più profondi i pregiudizi, se ciò è in armonia con la politica di un governo; oppure, in alternativa, deve essere in grado di cambiare le menti e manipolare le coscienze quando l’umore dell’opinione pubblica non è in linea con gli obiettivi perseguiti dalla leadership di una nazione. Questi obiettivi non si raggiungono offrendo uno spazio per il dibattito ragionato o tentando di ottenere un consenso condiviso, come è ordinaria procedura dei media in tempo di pace. Al contrario, la propaganda deve essere radicalizzante, marcatamente selettiva, se necessario deliberatamente omissiva, non deve lasciare spazio a dubbi, compassione o riflessione sugli argomenti trattati. Sullo schermo, un simile approccio richiede chiarezza di esposizione non meno che sulla stampa. Poiché Il 7 dicembre era in origine destinato ad un pubblico selezionato di militari e dipendenti delle industrie belliche, era necessario un film capace di presentarsi a persone non altrimenti motivate a visionarlo di propria spontanea volontà, in grado di sollecitare una risposta di odio verso il Giappone e soprattutto verso i giapponesi, nonché orgoglio per i risultati ottenuti da coloro che avevano letteralmente risollevato le sorti della nazione dal disastro di Pearl Harbor.

Un’accettabile alternativa sarebbe stata quella di un resoconto più breve e diretto degli eventi. Invece è stata eseguita un’operazione equivoca, mirante alla discussione razionale di una quantità di argomenti: la lealtà (o slealtà) del più numeroso gruppo etnico presente sulle isole, la miopia dell’isolazionismo politico del Congresso, gli errori compiuti dai militari che si trovavano in situ quella domenica mattina e – forse la questione più esplosiva di tutte – la possibilità che gli Stati Uniti si richiudessero nuovamente nel loro guscio di non interventismo prebellico dopo la fine del conflitto. Per ogni argomentazione c’era una controargomentazione. Uncle Sam non fa in tempo ad affermare la propria fiducia nel patriottismo della popolazione nippo-americana che subito Mr. C gli fornisce prova tangibile e inoppugnabile del contrario, dell’attività di spionaggio svolta da individui di ogni estrazione sociale, animati da una devozione quasi religiosa verso l’imperatore Hirohito.Le attestazioni di U.S. riguardo alla propria consapevolezza della pericolosità della situazione si scontrano con le controargomentazioni della sua coscienza, che sottolinea il suo atteggiamento da struzzo con la testa nella sabbia.

Per essere del tutto corretti verso Toland e il suo sceneggiatore, Sam Engel, bisogna dire che essi si ritrovarono surclassati dagli avvenimenti. Qualunque forza potesse avere a Washington la lobby isolazionista all’alba di Pearl Harbor, essa venne rapidamente dissipata tanto dall’attacco quanto dal rimarchevole gesto di solidarietà verso i giapponesi compiuto da Hitler e Mussolini, i quali, di lì a poco, dichiararono guerra agli Stati Uniti, assicurandosi così che il conflitto avesse rilevanza mondiale e non limitata ad una mera campagna nel Pacifico. Tuttavia, se il film fosse stato proiettato in pubblico, avrebbe riesumato molti ricordi e fatto sembrare particolarmente sciocchi gli oppositori di una politica d’intervento.

Nonostante ciò, Il 7 dicembre, quale veicolo di propaganda, rappresenta un risultato non trascurabile. Si dimentica a volte che gli Stati Uniti erano gli ultimi arrivati nel campo dei documentari sponsorizzati dal governo. Solo nel 1936 Pale Lorentz aveva realizzato il primo di essi, The Plow That Broke the Plains [L’aratro che squarciò le pianure, NdT], per l’Amministrazione degli Insediamenti Rurali, e i pochi titoli che apparvero nei quattro anni successivi vennero accolti con sospetto, come pubblicità appena velata alle politiche del New Deal. [15] L’Inghilterra, la Germania e l’Unione Sovietica erano già molto avanti in questo settore e i loro documentaristi erano in grado di spostarsi dai temi civili a quelli bellici con grande facilità. Toland e Ford furono dei precursori, insieme a Frank Capra. Sarebbe stato straordinario che ne fosse scaturito un film perfetto. In ogni caso le immagini de Il 7 dicembre offrono una commozione e una immediatezza che pochi film sulla II Guerra Mondiale riescono a superare. Il continuo ricorso alle sue immagini fin dal 1942 costituisce la prova della durevolezza dei suoi valori e un tributo alla visione unica dei loro autori.

NOTE:

1. L’unica copia esistente dell’originale versione in 35mm de Il 7 dicembre è conservata presso la Motion Picture Division of the National Archives and Records Administration (NA), Washington D.C. Questa versione è in condizioni appena discrete e non viene più proiettata. Comunque, prima che iniziasse il deterioramento della pellicola, di essa venne fatto un “video master” da un pollice che è disponibile per la visione ai ricercatori accreditati. Le copie in VHS e Beta del film da 83 minuti possono essere acquistate per uso domestico. La versione da 33 minuti che John Ford ricavò dal film originale è disponibile tanto in 16mm quanto nei vari formati video presso una quantità di fonti, tra cui il Centro Audio-Visivo Nazionale dell’Archivio Nazionale. Visionando l’originale risultano evidenti alcune imperfezioni che sarebbero state probabilmente eliminate da Gregg Toland, il regista, se il film avesse ricevuto l’autorizzazione ad essere proiettato in pubblico. Mancano totalmente i titoli di testa e di coda; alcuni goffi “salti” tra una scena e l’altra sono probabilmente dovuti a errori di montaggio; un dialogo tra il console giapponese e quello tedesco viene tagliato all’improvviso. Eye of the Eagle, una serie di documentari dell’Enciclopedia Britannica, contiene un programma di 53 minuti dedicato al film originale. In esso compaiono spezzoni del film e un’intervista di Richard Schickel a Robert Parrish, che conobbe Toland e montò la versione tagliata. Documenti scritti riguardanti la realizzazione ed eliminazione del film dalle sale si possono reperire nelle scatole n. 1433 e 1438, Record Group 208, Office of War Information, Bureau of Motion Pictures, NA. Gli appunti di John Ford si trovano presso la Lilly Library, Università dell’Indiana. La Biblioteca del Congresso, Motion Picture Division, possiede i documenti contenenti le indicazioni dell’OWI per la versione ridotta. Può inoltre essere utile l’articolo di William T. Murphy "John Ford and the Wartime Documentary", pubblicato su Film and History 4 (Febbraio 1976). Il migliore e più recente saggio su Ford è quello di Tag Gallagher, John Ford: The Man and His Films (Berkeley: University of California Press, 1986).

2. C. Dougherty girò circa 70 metri di pellicola in 16mm e il Ten. Comandante Edward Young girò circa 35 metri con una cinepresa in Kodachrome da 8mm. Questi filmati vennero utilizzati da Toland come materiali di riferimento e una piccola, breve porzione dei materiali di Dougherty vennero inseriti nel film nella parte relativa all’attacco.

3. Gallagher, John Ford, 215-16 (note a piè di pagina).

4. Murphy, "John Ford and the Wartime Documentary," 4.

5. Gordon W. Prange, At Dawn We Slept (New York: McGraw-Hill, 1981), pp. 71-73.

6. Preliminary Report and Inventory, RG 208, NA .

7. Delle pressioni dell’OWI sull’industria cinematografica parlano diffusamente Clayton R. Koppes e Gregory D.   Black in Hollywood Goes to War: How Politics, Profits and Propaganda Shaped World War Two Movies (New York: Free Press, 1987).

8. Poynter to Mellett, 9 October 1942, Box 1438, RG 208, NA .

9. Poynter to Mellett, 9 November 1942, ibid.

10. Mellett to James Forestal, 1 December 1942, ibid.

11. Citato in Murphy, "John Ford and the Wartime Documentary," 6-7

12. Stimson to Mellett, 13 January 1943, and Stimson to Davis, 13 May 1943, Box 1433, RG 208, NA.

13. Citato in Murphy, "John Ford and the Wartime Documentary," 7.

14. Eye of the Eagle, intervista (vedi nota 1).

15. Per un resoconto completo delle ostilità congressuali si veda Robert L. Snyder, Pare Lorents and the Documentary Film (Norman: University of Oklahoma Press, 1976), particolarmente il capitolo 7.

 

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