Caporetto doveva essere. E Caporetto è stata. Dino Boffo – il direttore di quell’Avvenire, quotidiano dei vescovi, cui Vittorio Feltri e il suo “Giornale” avevano dedicato un ritrattino per così dire inedito (dipingendolo come omosessuale e raccontando che era stato condannato per molestie) – alla fine si è dimesso. Segnando una durissima sconfitta per l’informazione italiana tutta.
Dirà qualcuno ispirato dalla sinistra al caviale nostrana (quella per capirci che piange per gli stipendi e i destini dei precari, ma con il conto corrente a cinque o sei zeri): “Brrrrluscooooooo… colpa pedo-porno-putt-psico-papi… uaaaaaaaargh!”. Di commenti del genere, sul web, se ne trovano a bizzeffe. Qualcuno anche più volgare e più sgrammaticato. Ma hanno padri più o meno nobili. Dal vicedirettore di Repubblica, Giuseppe D’Avanzo all’onnipresente e multimediale, Marco Travaglio. Il ragionamentino che questi mâitre-à-penser dell’antiberlusconismo hanno ammanito a reti unificate è semplice: Berlusconi è in cattivissima fede; voleva colpire Boffo, per dare una lezione e zittire i giornalisti tutti. Un ragionamentino che fila. Per carità. Ma che evita accuratamente – a parere di chi scrive – di cogliere il punto.
In effetti, sì. Questa è una vittoria del Cavalier Berlusconi Silvio da Arcore. E non perchè si è liberato di un direttore che – nel periodo di Noemi e di escort varie – gli aveva tirato contro. Ma perchè voleva banalmente dimostrare che i (grandi) giornalisti italiani – dopo anni passati a proteggere magagne e interessi dei loro editori; e a proteggersi tra loro – non avevano la pelle abbastanza dura (e gli armadi abbastanza sgombri di scheletri) per puntare il dito contro i suoi peccattini, peccatoni e peccatucci. E il guaio – il vero guaio – è che, a quanto pare, aveva e ha ragione.
Da questa storia, infatti, il mondo dell’informazione, per il momento, esce con le ossa rotte. In primis e paradossalmente quel Vittorio Feltri, regista dell’inchiesta-scandalo. Che più che una vittoria di Pirro, ha incassato una vittoria del piffero. Perchè si è completamente sputtanato, usando – per confezionare le accuse contro Boffo – una lettera anonima. Senza verificarne i contenuti. E scrivendo – come ha giustamente ribattuto il direttore di Avvenire in persona – un mucchio di castronate. Cosa che, a memoria di chi scrive, non ha precedenti (immaginate cosa accadrebbe se i giornali pubblicassero tutte le lettere e i documenti anonimi che ricevono, senza controllare se quel che c’è scritto sia vero…). Ma i suoi colleghi – testate e giornalisti blasonati vari – non hanno fatto miglior figura.
La condanna per molestie a carico di Boffo – una modesta ammenda per 516 euro – risale al 2004. E nessuno – nessun giornale, telegiornale o organo di stampa vario – si era mai degnato (prima di Feltri) di approfondire il perchè e il per come un collega tanto gallonato e tanto timorato di Dio se l’era vista appioppare.
Mario Adinolfi – ex collaboratore di Boffo all’Avvenire – aveva scritto, nero su bianco, nel 2005: “Pare che il direttore di un quotidiano cattolico abbia ricevuto un decreto penale di condanna. Ma non oggi, l’anno scorso. Tutti i giornali ne sono a conoscenza, a Roma se ne chiacchiera con gusto giusto da un anno, ma per quello strano patto che fa sì che i direttori di giornali si proteggano tra loro, sui giornali non troverete una riga sull’argomento“. Qualche giorno fa, Adinolfi con un’intervista l’ha pure ribadito. E nessuno – nessun giornale, telegiornale o organo di stampa vario – lo ha mai smentito.
Dulcis in fundo: lo stesso direttore dell’Avvenire ha dimostrato tutto il suo amore per la libertà di stampa, negando ai colleghi giornalisti l’accesso agli atti giudiziari che lo riguardavano (tramite istanza del suo legale, accolta dai magistrati). In pratica: sapremo la verità (giudiziaria, s’intende) se e quando lui – o la vittima delle molestie (telefoniche) – si decideranno a raccontarla. Un redde rationem che – grazie a queste provvidenziali dimissioni che levano dall’imbarazzo tanto il quotidiano dei vescovi quanto la Curia tutta – a questo punto è rimadato sine die. Amen.
Un bel ritrattino di famiglia per la stampa italiota. Che ben rappresenta la falla del ragionamento dei mâitre-à-penser della gauche caviar. Se Feltri – o chi per lui alla guida del berlusconiano “Il Giornale” – non avesse montato questa campagna ad arte, il direttore dell’Avvenire avrebbe comunque avuto la sua condanna (evidentemente difficile da spiegare) sul groppone. E il mondo dell’informazione – che finchè ha potuto ha protetto (o ha preferito ignorare) i guai del collega – non godrebbe di miglior salute. Per dirla con una metafora: Berlusconi non è il male, è il sintomo che racconta (letteralmente in questo caso) una società alla deriva. Che – cosa ancor più grave – manca di anticorpi.