DI
MICHAEL T. KLARE
Sin Permiso
Il dibattito attuale gira intorno ad una questione fondamentale: se abbiamo già raggiunto il picco di produzione del petrolio o se questo accadrà, a voler essere ottimisti, nel prossimo decennio. Su una cosa non c’è dubbio: stiamo vivendo il passaggio da un’epoca basata sul petrolio considerato come fonte principale di energia ad un’epoca in cui una sempre maggiore quantità di investimenti energetici proverrà da fonti di energia alternative soprattutto da quelle rinnovabili del sole, del vento e delle onde. Allora, allacciatevi le cinture, sarà un viaggio turbolento in condizioni estreme.
Sarebbe ideale, questo è ovvio, che il passaggio dal petrolio ai suoi sostituti più clementi in termini ecologici, si producesse lentamente attraverso un macro-sistema, ben coordinato ed interconnesso, di installazioni di energia eolica, solare, mareomotrice, geotermica e di altre fonti rinnovabili. Sfortunatamente è abbastanza improbabile che ciò accada. Quel che più è certo è che prima vivremo un’epoca caratterizzata da un uso eccessivo delle ultime e meno attraenti riserve di petrolio e carbone, così come di idrocarburi “poco convenzionali” ma altamente inquinanti come le sabbie bituminose del Canada o altre alternative fossili decisamente poco allettanti.
Non c’è dubbio che Barack Obama e vari membri del Congresso gradirebbero accelerare il salto dalla dipendenza dal petrolio alle altre fonti di energia alternativa non inquinanti. Come ha detto lo stesso presidente a gennaio “ci stiamo impegnando nella ferma costruzione, diretta e pragmatica, di un paese (gli Stati Uniti) in grado di sganciarsi dalla dipendenza [dal petrolio] e di dotarsi di un nuovo modello energetico ed economico che crei nuovi posti di lavoro ai nostri concittadini”. Certo è che dei 787 miliardi di dollari del pacchetto incentivi firmato a febbraio, 11 miliardi sono stati destinati all’ammodernamento della rete elettrica nazionale, 14 miliardi agli incentivi fiscali destinati alle società che investono in energie rinnovabili, 6 miliardi sono stati destinati ai programmi statali sull’efficienza energetica, e ancora altri miliardi alla ricerca in materia di energie rinnovabili. A questi provvedimenti potrebbero aggiungersene altri simili nel caso in cui il Congresso approvasse il progetto di legge sul cambiamento climatico. La versione appena approvata dalla Camera dei Rappresentanti degli tati Uniti, per esempio, impone che nel 2020 il 20% della produzione elettrica degli Stati Uniti provenga da fonti di energie rinnovabili.
Ci sono però altresì cattive notizie. Anche se queste iniziative dovessero prender piede, e anche se nell’immediato venissero approvate altre iniziative simili, ci vorrebbero comunque decenni per ridurre sostanzialmente la dipendenza statunitense dal petrolio e dalle altre fonti di energia inquinanti e non rinnovabili. La nostra domanda di energia è tale e gli attuali sistemi di distribuzione dei combustibili che consumiamo sono talmente radicati che, salvo una qualche sorpresa inaspettata, quello che ci aspetta è un periodo di alcuni anni in una terra di nessuno, a cavallo tra l’epoca del petrolio e quella di una eventuale diffusione delle energie rinnovabili. A volerle attribuire un nome, questa fase potrebbe essere denominata era dell’eccesso energetico. Quel che è certo è che, da tutti i punti di vista possibili ed immaginabili, da quelli economici a quelli relativi ai cambiamenti climatici, saranno tempi davvero duri.
È inutile prenderci in giro pensando che questa nuova e cupa era porterà poi molte più turbine eoliche, lastre solari e veicoli ibridi. È probabile che la maggior parte dei nuovi edifici vengano equipaggiati con pannelli solari e che si costruiscano più treni leggeri. Ma ciò che sembra più probabile è che, in materia di trasporti, la nostra società continui a dipendere fondamentalmente da aerei, barche, camion e automobili a petrolio. Stesso identico discorso vale per il carbone e l’energia elettrica. Buona parte delle infrastrutture per la produzione e distribuzione di energia resteranno intatte anche se le attuali fonti di petrolio, carbone e gas naturale iniziano ad esaurirsi. Tutto ciò porterà ad una conseguenza: saremo costretti a fare affidamento su fonti fossili fino ad ora non sfruttate, molto meno auspicabili e spesso molto meno accessibili.
Dalle recenti proiezioni del Dipartimento di Energia sui futuri livelli di consumo energetico degli Stati Uniti, si possono già notare alcuni indicatori che anticipano questa combinazione di combustibili nella nuova era. Secondo il Rapporto Annuale sull’Energia per il 2009 elaborato dal Dipartimento, si calcola che gli Stati Uniti consumeranno circa 114 quadrilioni di unità termiche britanniche (BTU) di energia nel 2030. [Il British thermal unit (BTU o Btu) è un’unità di misura dell’energia, usata negli Stati Uniti e nel Regno Unito (generalmente usata nei sistemi di riscaldamento) N.d.T.]. Di questo totale, un 37% proverrà dal petrolio e altri liquidi disciolti nel petrolio; un 23% proverrà dal carbone; un 22% dal gas naturale; un 8% dall’energia nucleare; un 3% dall’energia idraulica e solo un 7% dall’energia eolica e solare, dalla biomassa e da altri fonti rinnovabili.
Sembra dunque evidente che nessuno di questi dati permetta di prevedere un drastico abbandono del petrolio e degli altri combustibili fossili. Considerando la tendenza attuale, il Dipartimento di Energia prevede anche che, nell’arco di due decenni, nel 2030, il petrolio, il gas naturale e il carbone rappresenteranno ancora l’82% del consumo primario di energia negli Stati Uniti, appena due punti in meno del 2009. (Non è da escludere, naturalmente, che un drastico cambiamento delle priorità nazionali ed internazionali possa condurre ad una maggiore crescita delle energie rinnovabili nei decenni a venire. Ma a questo punto uno scenario di questo tipo sembrerebbe più una speranza che un dato affidabile).
Anche se nel 2030 i combustibili di origine fossile continueranno a prevalere, la natura di alcuni e la loro estrazione sperimenteranno profonde trasformazioni. Attualmente la maggior parte del nostro petrolio e del nostro gas naturale proviene da fonti “convenzionali”, vaste riserve sotterranee ubicate in territori dell’entroterra o territori costieri poco profondi e relativamente accessibili. Si tratta di riserve che possono essere sfruttate semplicemente con le tecnologie che già conosciamo, in particolare attraverso versioni più o meno moderne di quegli enormi pozzi petroliferi che divennero famosi grazie al film There Will be Blood [Il Petroliere, in italiano] uscito nel 2007.
In quanto fonte di consumo globale, la maggior parte di questi pozzi si stanno esaurendo. L’industria energetica sarà di conseguenza costretta a ricorrere a piattaforme marine (in grado di localizzare petrolio e gas a maggiore profondità), a sabbie bituminose, a petrolio e gas proveniente dall’Artico e a gas estratto da rocce scistose attraverso tecniche altamente costose e rischiose dal punto di vista ambientale.
Secondo il Dipartimento di Energia, nel 2030 queste fonti energetiche non convenzionali forniranno il 13% dell’offerta mondiale del petrolio (a paragone dell’appena 4% del 2007). Una tendenza simile si segnala in materia di gas naturale, soprattutto negli Stati Uniti, dove si calcola che la percentuale di energia proveniente da fonti non convenzionali ma non rinnovabili, crescerà nello stesso periodo dal 47% al 56% .
L’importanza di queste fonti di approvvigionamento è evidente a chiunque segua i giornali specializzati nel mercato dell’industria petrolifera o che semplicemente legga più o meno regolarmente le pagine di economia del Wall Street Journal. A parte questo, non si è smesso di annunciare grandi scoperte di nuove riserve di gas e petrolio collocate in territori accessibili tramite le classiche tecniche di perforazione ed altresì connesse ai mercati chiave attraverso condutture o attraverso vie di commercializzazione già esistenti (o fuori dalle zone di guerra come l’Iraq, la regione del Delta del Niger o la Nigeria). In ogni modo, sebbene si presuma che i giacimenti siano lì, nella pratica si tratta di riserve che si trovano nell’Artico, in Siberia o in acque particolarmente profonde dell’Atlantico o del Golfo del Messico.
Poco tempo fa, in effetti, la stampa ha annunciato con grande clamore grandi scoperte nel Golfo del Messico e nelle coste del Brasile che permetteranno inizialmente di dare un po’ di respiro all’era del petrolio. Il 2 settembre, la petroliera BP (la ex British Petroleum) ha annunciato la scoperta di un gigantesco giacimento nel Golfo del Messico, a circa 400 km a sud-est di Huston. Si calcola che da qui a qualche anno, quando comincerà lo sfruttamento, il pozzo denominato Tiber potrà arrivare a produrre centinaia di migliaia di barili di petrolio grezzo al giorno, ciò che per la BP significherebbe consolidare il proprio status di grande produttore nelle zone marittime. “È davvero grandioso” ha commentato Chris Ruppel, analyst in materia di energia della Execution LLC, banca d’affari londinese. “I progressi tecnologici ci stanno dando la possibilità di sprigionare risorse sconosciute o il cui sfruttamento risultava troppo costoso dal punto di vista economico”.
Ciò nonostante, se qualcuno concludesse che questo giacimento potrebbe aumentare rapidamente e facilmente la fornitura di petrolio del paese, si sbaglierebbe del tutto. Tanto per cominciare il giacimento si trova a circa 10.600 metri di profondità (più dell’altezza del Monte Everest, come ha specificato un giornalista del New York Times) e decisamente parecchio sotto il livello della superficie del Golfo. Per raggiungere il petrolio, gli ingegneri della BP dovrebbero perforare chilometri di roccia, sale e sabbia compatta e per riuscirci dovrebbero ricorrere ad attrezzature particolarmente costose e sofisticate. Per rendere le cose ancora più complicate c’è da dire che il Tiber si trova esattamente nel bel mezzo di una zona del Golfo regolarmente flagellata da massicce tormente e da stagioni caratterizzate da forti uragani. Qualsiasi perforatrice, quindi, che cerchi di operare in zona, dovrà essere progettata per resistere a venti e a violente ondate e, rimanere inattiva per alcune settimane ogniqualvolta gli operatori siano costretti ad evacuare la zona.
Nel caso del giacimento di Tupi, l’altra grande scoperta degli ultimi anni, la situazione è molto simile. Situato a 320 chilometri ad est di Rio de Janeiro nelle profondità dell’Oceano Atlantico, Tupi è stato spesso descritto come il più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi 40 anni. È stato calcolato che potrebbe contenere dai 5.000 agli 8.000 milioni di barili di petrolio recuperabili, una quantità che catapulterebbe il Brasile in prima linea tra i produttori di petrolio. Sempre che, chiaramente, i brasiliani riescano a superare la loro lunga e sconfortante lista di ostacoli: il giacimento di Tipi si trova sotto 2.500 metri d’acqua di mare e circa 4.000 metri di roccia, sabbia e sale. Per accedervi sono necessarie tecnologie di perforazione all’avanguardia e super sofisticate. Si stima che il costo totale dell’intera operazione si aggirerebbe tra i 70 e i 120 miliardi di dollari e avrebbe bisogno di anni di dedicato lavoro.
Se si considerano i potenziali elevati costi che comporta il recupero di queste ultime riserve di petrolio, non sorprende che le sabbie bituminose del Canada siano l’altra carta che il mercato del petrolio è disposto a giocarsi. Non si tratta di petrolio in senso convenzionale ma di una miscela di argilla, sabbia, acqua e bitume (un petrolio molto pesante e denso) la cui estrazione esige l’utilizzo di tecniche di perforazione tipiche del settore minerario e il cui utilizzo, come combustibile liquido utile, richiede un pretrattamento ad alta intensità. In realtà il fatto che le grandi società energetiche si siano fatte largo a gomitate per l’acquisto delle licenze per l’estrazione del bitume nella regione di Athabasca o del nord di Alberta, si spiega solo perché si è ormai convinti che il petrolio convenzionale e facilmente accessibile si stia ormai esaurendo.
L’estrazione di sabbie bituminose e la loro trasformazione in combustibile liquido utile è un processo costoso e molto complesso. L’urgenza del dover ricorrere a tali risorse spiega chiaramente il singolare stato di dipendenza energetica in cui versiamo. I depositi situati in superficie possono essere estratti con le tecniche delle miniere a cielo aperto, ma quelle che si trovano in zone più profonde del sottosuolo esigono l’utilizzo del vapore prima di tutto, per separare il bitume dalla sabbia e successivamente, per estrarre il bitume stesso. L’intero processo impegna enormi quantità di acqua e di gas naturale (necessari per trasformare l’acqua in vapore). Una parte dell’acqua utilizzata proviene dallo stesso giacimento e si riproduce; c’è invece una quantità significativa che solitamente si muove attraverso la rete di approvvigionamento idrico di Alberta del Nord, cosa che ha provocato, tra i gruppi ambientalisti, il timore di una possibile contaminazione su larga scala.
A questi inconvenienti se ne possono aggiungere altri come ad esempio l’intenso processo di deforestazione che una miniera a cielo aperto implicherebbe e l’elevato consumo di un bene prezioso come il gas naturale necessario per l’estrazione del bitume. In ogni caso, la domanda dei prodotti che derivano dal petrolio che la nostra civiltà ha sviluppato è tale che l’obiettivo per il 2030 è quello di far sì che le sabbie bituminose generino circa 4,2 milioni di barili di combustibile al giorno (tre volte la quantità prodotta oggi). Poco importa se tutto ciò presuppone la devastazione di intere zone di Alberta, il consumo di ingenti quantità di gas naturale, l’aumento del rischio di contaminazione e il sabotaggio degli sforzi che il Canada compie per diminuire le proprie emissioni di gas da effetto serra.
Nel nord dell’Alberta è possibile trovare un’ulteriore abbondante fonte di energia: i gas e il petrolio dell’Artico. Se in passato era già solo difficile sopravvivere in questa regione, ancor meno si sperava che potesse produrre energia. In ogni modo, nella misura in cui il riscaldamento globale ha facilitato alle società energetiche l’accesso alle latitudini settentrionali, l’Artico è diventato oggetto di una nuova febbre petrolifera. La compagnia statale norvegese StatoilHydro controlla attualmente il più importante giacimento di gas naturale del circolo artico. Un numero imprecisato di società di diverse zone del mondo ha a sua volta in mente di compiere una serie di esplorazioni nei territori artici del Canada, della Groenlandia (territorio danese), della Russia e degli Stati Uniti. Addirittura le perforazioni delle zone costiere dell’Alaska potrebbero essere presto messe all’ordine del giorno.
Non sarà semplice, tuttavia, ottenere petrolio e gas naturale dall’Artico. Anche se il riscaldamento globale aumenta le temperature e riduce lo spessore della cappa di ghiaccio polare, le condizioni per le attività petrolifere in inverno continueranno ad essere estremamente complicate e rischiose. Le violente tormente e i bruschi cambi di temperatura continueranno ad essere all’ordine del giorno. Tutto ciò comporterà un alto rischio per qualsiasi gruppo sprovvisto degli adeguati equipaggiamenti di sicurezza ed un evidente ostacolo per il trasporto dell’energia.
Niente di tutto questo è riuscito, in ogni caso, a dissuadere una serie di società energetiche che, di fronte al panorama dell’imminente caduta degli investimenti energetici, sono assolutamente disposte a tuffarsi in acque gelate. “Nonostante le condizioni avverse, l’interesse nei confronti delle riserve di gas e petrolio nell’estremo Nord non ha fatto altro che aumentare”, afferma Brian Baskin nel Wall Street Journal. “Praticamente tutti i produttori vedono nel sottosuolo artico la prossima grande fonte di risorse energetiche”. Ciò che è vero per il petrolio, lo è anche per il gas naturale ed il carbone: la maggior parte delle riserve energetiche convenzionali ed accessibili si stanno esaurendo rapidamente. Ciò che resta sono fondamentalmente fonti “non convenzionali”.
I produttori statunitensi di gas naturale, ad esempio, hanno registrato un significativo aumento della produzione locale che ha avuto, come conseguenza, una considerevole diminuzione dei prezzi. Secondo il Dipartimento di Energia, si calcola che la produzione di gas degli stati Uniti passerà dai 20 miliardi di piedi cubici nel 2009 ai 24 miliardi nel 2030. Un’autentica benedizione per i consumatori nordamericani il cui riscaldamento domestico e la cui elettricità dipendono per buona parte dal gas naturale. In ogni caso, lo stesso Dipartimento di Stato ha anche segnalato che “il maggior contributo alla crescita della produzione di gas naturale negli Stati Uniti proviene dal gas naturale non-convenzionale visto che l’aumento dei prezzi e i passi avanti fatti nelle tecniche di perforazione hanno prodotto gli incentivi economici necessari allo sfruttamento delle riserve energetiche più costose”.
La maggior parte del gas non-convenzionale negli Stati Uniti si ottiene dalle sabbie compatte, anche se esiste una percentuale sempre maggiore che si estrae dalle rocce scistose attraverso un processo noto come frattura idraulica. In virtù di questo processo, si provoca il passaggio di acqua nelle formazioni scistose sotterranee allo scopo di rompere la roccia e sprigionare il gas. Le quantità di acqua utilizzate in questo processo sono decisamente abbondanti e alcuni ambientalisti temono che parte di quest’acqua, carica di sostanze inquinanti, possa finire nelle reti di approvvigionamento idrico. D’altra parte esistono molte zone in cui l’acqua rappresenta una risorsa decisamente rara per cui la deviazione di ingenti quantità di questo bene per l’estrazione del gas potrebbe diminuire le quantità utili per l’agricoltura, per la salvaguardia del territorio e per il consumo civile. Si calcola, inoltre, che la produzione di gas proveniente da formazioni scistose passerà dai due miliardi di piedi cubici all’anno del 2009 ai quattro miliardi nel 2030.
Il panorama in materia di carbone non è poi così diverso. Molti ambientalisti hanno denunciato la combustione del carbone dato che produce più gas effetto serra per BTU prodotta che qualsiasi altro combustibile fossile.Ciò nonostante, l’industria elettrica nazionale continua a ricorrere al carbone perché risulta essere ancora una risorsa relativamente economica e disponibile. Infatti, in ogni caso, bisogna dire che le fonti che producono maggiormente antracite e carbonio bituminoso (quelle che contengono il maggiore potenziale energetico) sono ormai esaurite. Pertanto, così come accade nel caso del petrolio, ciò che resta sono solo le fonti meno produttive e vasti depositi di un carbone con basso contenuto bituminoso, decisamente poco allettante e altamente inquinante, nella zona del Wyoming.
Per accedere a quello che resta il più prezioso carbone bituminoso nelle montagne Apalaches, le compagnie minerarie ricorrono sempre più ad una tecnica meglio conosciuta come rimozione di cime di montagna. John M. Broder del New York Times ha descritto questa tecnica come una “esplosione della superficie delle montagne in cui i detriti sono gettati in un riempimento della valle o nei corsi d’acqua”. Non è certo un caso che questa tecnica sia stata fortemente contrastata dagli ambientalisti e dai residenti nella zona rurale del Kentucky, nel West Virginia, i cui corsi d’acqua risultano minacciati dai detriti di roccia, dalle polveri e da una ingente varietà di sostanze inquinanti. Questa procedura è stata invece appoggiata dalla Amministrazione Bush che nel dicembre del 2008 ha approvato una normativa che consentiva un ampliamento della sua pratica. Il Presidente Obama si è impegnato ad abrogare tale normativa al fine di favorire l’utilizzo di “carbone pulito” come parte di una strategia energetica di transizione.
In conclusione: non prendiamoci in giro. Siamo ben lontani (per lo meno ancora) dalla tanto annunciata era delle energie rinnovabili. È possibile che questo giorno così glorioso arrivi, ma non prima della fine del secolo e non prima che la febbrile ricerca delle vecchie fonti di energia abbia causato una considerevole quantità di danni al pianeta.
Nel frattempo l’era dell’eccesso energetico sarà caratterizzata da una forma di dipendenza sempre maggiore nei confronti delle fonti energetiche meno accessibili e meno auspicabili del petrolio, del carbone e del gas naturale. Per tutto questo periodo assisteremo di sicuro ad intense battaglie che si svilupperanno attorno alle conseguenze ambientali dell’uso di queste fonti energetiche così poco attraenti. Le grandi società petrolifere e del carbone cresceranno ulteriormente come conseguenza degli elevati costi dei processi d’estrazione di petrolio, gas e carbone nelle aree di difficile accesso.
C’è solo una cosa sfortunatamente certa: l’era dell’eccesso energetico porterà intensi scontri geopolitici per il controllo delle fonti energetiche rimanenti, conflitti che si verificheranno tra i maggiori produttori e consumatori di energia come gli Stati Uniti, la Cina, l’Unione Europea, la Russia, l’India e il Giappone. Russia e Norvegia, per esempio, hanno già in corso un contenzioso di frontiera nel mare di Barents, una sicura fonte di gas naturale nell’estremo Nord. Cina e Giappone hanno vissuto, d’altro canto, contenziosi simili per quanto riguarda il Mare della Cina Orientale, un’area che contiene un altro grande giacimento di gas. Tutti i paesi dell’Artico (Canada, Danimarca, Norvegia, Russia e Stati Uniti) hanno reclamato i loro diritti spesso sulle stesse porzioni di territorio dell’Oceano Artico cosa che ha provocato, in queste zone ricche di fonti energetiche, nuovi conflitti di frontiera.
Nessuno di questi scontri è degenerato ancora in conflitto violento ma hanno già avuto luogo alcuni spiegamenti di navi e di aerei da guerra ed è possibile che gli animi si riscaldino nel momento in cui aumenterà la consapevolezza del valore delle risorse in gioco. Non dobbiamo dimenticare tra l’altro che di fatto esistono già alcuni punti caldi legati ai conflitti per l’energia, in Nigeria, in Medio Oriente e nel Bacino del Caspio. Dopotutto, in quella che a breve sarà un’epoca caratterizzata da non pochi limiti energetici, di certo non possiamo escludere eventuali conflitti che si genereranno attorno alle sempre più appetibili zone in cui le fonti energetiche sono semplicemente accessibili.
Per molti di noi la vita nell’era dell’eccesso energetico non sarà per niente facile. I prezzi dell’energia aumenteranno, i pericoli ambientali si moltiplicheranno, quantità sempre maggiori di diossido di carbonio si riverseranno nell’atmosfera e il pericolo di possibili conflitti crescerà. Abbiamo solo due opzioni in grado di abbreviare quest’epoca complessa ed attenuarne l’impatto. Sono entrambe assolutamente ovvie, cosa che purtroppo non rende più semplice la loro applicazione: accelerare drasticamente lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e diminuire sensibilmente la nostra dipendenza dai combustibili fossili, riorganizzando le nostre vite e la nostra società in modo da non dover ricorrere necessariamente al loro utilizzo in tutto ciò che facciamo.
Certo, la cosa sembrerebbe davvero semplice, ma provate a dirlo a chi governa il mondo. Alle grosse società energetiche. Non possiamo perdere le speranze e dobbiamo continuare a lavorare a tal fine. Nel frattempo però, tenete allacciate le cinture di sicurezza. Il viaggio sulle montagne russe sta per cominciare.
Michael T. Klare è professore di “peace and world security studies” nell’ Hampshire College. il suo ultimo libro è “Rising Powers, Shrinking Planet: The New Geopolitics of Energy” (Metropolitan Books).
Titolo originale: "La era del exceso energético o la vida después de la era del petróleo"
Fonte: http://www.huffingtonpost.com
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22.09.2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SILVIA DAMMICO