Comunicare un licenziamento mica è facile. Ci vuole tatto, ci vuole umanità. E che tatto e quanta umanità ha avuto l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Pochi giorni fa, Marchionne – per comunicare il licenziamento in tronco di tutti gli operai siciliani della fabbrica di Termini Imerese, in provincia di Palermo – si è limitato a dire che la chiusura del loro stabilimento arriverà puntuale nel 2012. E che questa decisione – quella di chiudere, appunto – è ormai, testuali parole, “irreversibile”. Un po’ come il coma che precede la morte. Amen. Con buona pace delle 1.300 e passa persone che ci lavorano dentro; e pure degli altri 800 operai che lavorano fuori (nelle aziende del cosiddetto indotto).

Duemila i (potenziali) licenziamenti, quindi. E mirabili le ragioni. Punto primo:

“La Fiat – ha detto Marchionneè un’azienda e ha le responsabilità di un’azienda. Non ha le responsabilità di un governo, è il governo che deve governare. Siamo il maggiore investitore in Italia, ma non abbiamo la responsabilità di governare il paese”.

Tradotto: la Fiat mica è Babbo Natale e i disoccupati non sono affar suo.

Punto secondo:

«A livello globale – ha ricordato Marchionne – la nostra industria ha la capacità di produrre circa 94 milioni di auto all’anno, circa 30 milioni in più di quante se ne vendono. Un terzo di questo eccesso di capacità si trova in Europa (…). La ragione è semplice. I produttori europei semplicemente non chiudono gli impianti. E questo perché ricevono spesso fondi per non farlo. L’ultima volta che un impianto in Germania è stato chiuso, la Seconda Guerra Mondiale doveva ancora iniziare”. “Questo problema coincide con l’apparente determinazione a fare del settore automobilistico l’ultimo bastione del nazionalismo economico del continente. È passato più di mezzo secolo è passato da quando il Trattato di Roma è stato firmato, e i governi europei continuano ancora ad agire come se fossero le infermiere delle rispettive case automobilistiche nazionali, discriminandosi fra paesi“.

Che sempre tradotto, sembra volere dire: cari politici, siamo nel terzo millennio; dovreste proprio piantarla di preoccuparvi tanto e di riempire di soldi le vostre case automobilistiche.

Parole e concetti chiarissimi, per carità. Che fanno tanto imprenditore serio e libero mercato. Ma che sfortunatamente – e sfortunatamente per Marchionne, s’intende – cozzano con altre parole e altri concetti sempre usciti dalla bocca dell’amministratore delegato della Fiat. Perché: non era forse Marchionne quel signore col maglione blu che l’inverno scorso – e precisamente nel gennaio del 2009 – aveva chiesto a gran voce al governo Berlusconi di mettere mano al portafoglio e pagare una ricca messe di incentivi alla rottamazione, pena il licenziamento di 60mila persone? E non è stato sempre Marchionne – questo autunno, a settembre – a invocare con toni apocalittici una proroga dei soliti incentivi per la solita rottamazione, che se no sarebbe successo “un disastro”? E non è forse la Fiat guidata proprio dal signor Marchionne che da quattro anni a fila – quattro anni a fila: 2007, 2008, 2009 e con tutta probabilità 2010 – chiede e ottiene regolarmente gli incentivi di cui sopra, pagati con i soldi di tutti i contribuenti, anche di quelli che la macchina non la cambiano da lustri? Risposta: assolutamente, sì.

E va anche detto – a onor del vero – che Marchionne, nell’andare in giro con il cappello in mano, non ha fatto altro che seguire una consolidata tradizione di famiglia.

Dei Marchionne, cioè? No, degli Agnelli. Che di Fiat sono da sempre i proprietari. E infatti. Per chi avesse scarsa memoria: quattro anni fa – nel 2005, in una intervista a Repubblica – l’allora ministro del Welfare, Roberto Maroni si lanciò in un calcolo a cicche e spanne. E concluse che da quando la bonanima dell’Avvocato Agnelli aveva assunto la direzione dell’azienda, lo Stato aveva trasferito a Fiat – sotto varie voci – qualcosa come un milione di miliardi di vecchie lire. Pari a circa 500 miliardi di euro. Una cifra astronomica, che – disse sempre Maroni tanto per chiarire di quale montagna di soldi si trattasse – sarebbe bastata per comprare la statunitense General Motors. E non quella mezza fallita di oggi. Bensì quella florida di quattro anni fa, quando la General Motors era ancora la prima azienda automobilistica al mondo.

Soldi – bisogna aggiungere – che però la Fiat ha sempre reinvestito. Soprattutto all’estero. Per esempio a Belo Horizonte, in Brasile. Dove – come ha ricordato il Corriere della Sera, domenica scorsa (in un articolo purtroppo non disponibile on line) – la casa torinese ha da tempo una fabbrica da 9.400 dipendenti che produce ben 730mila auto all’anno. E ancora in Polonia. Dove sempre per esempio e sempre Fiat ha un altro stabilimento a Tichy che scodella altre 650mila vetture, ogni dodici mesi. Il risultato? Oggi Fiat produce più macchine in Polonia e Brasile che in Italia (1,4 milioni contro solo 650mila effettivamente made in Italy). E in futuro andrà peggio. Perché Termini Imerese dovrebbe chiudere, e a quel punto rimarranno sull’italico suolo soltanto quattro fabbrichette (a Torino, Cassino, Pomigliano d’Arco e Melfi). E perché una buona fetta dei quattrini guadagnati negli ultimi anni – anche grazie agli incentivi pagati dai contribuenti italiani – sono stati pure loro regolarmente reinvestiti. Ma in Serbia. Lì, Fiat ha deciso di comprare una storica fabbrica di automobili, la Zastava (costo: circa 700 milioni di euro, secondo “il Corriere della Sera”). E – corentemente con il nuovo corso stile “imprenditori del terzo millennio” e “avanti tutta con il libero mercato” – la casa torinese, per l’occasione, ha pure scelto un socio di eccezione, che sarà partner di Fiat con una quota del 33%. Lo Stato serbo.

Dulcis in fundo, gli Stati Uniti. Nella culla del libero mercato, la nuova Fiat targata Marchionne è sbarcata da poco, ma è risucita subito a farsi riconoscere. Fiat, nel 2009, ha messo le mani su uno storico marchio a stelle e strisce: la Chrysler. Cosa nota ai più anche perché ben strombazzata dai mass media tricolori. Meno noto è che la Chrysler “Fiat style” – secondo il “New York Times” – ha già ottenuto 6,6 miliardi di dollari di fondi dallo Stato. Stato (americano, questa volta) che ha anche un ruolo tutto particolare: quello di azionista – assieme a Fiat e ai sindacati – di Chrysler.

Perché, sapete com’è?, il libero mercato è il futuro. Ma per costruire il futuro c’è sempre tempo. E perché siamo tutti liberisti nel “core”. Ma con il portafoglio degli altri.

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