Capita a poche persone di avere un sogno (non tanti sogni di plastica, figli di un’indigestione di pubblicità; un sogno vero, personale, di quelli che ti tormentano per una vita intera). Ancora meno sono in grado di raccontarlo, mettendolo magari nero su bianco sulle pagine di un libro. Pochissimi – anzi quasi nessuno, quel benedetto sogno, è capace di realizzarlo e di viverlo.
Jerome David Salinger, ieri, è morto. Come chiunque altro non ha potuto evitare questa spiacevole necessità. Ma – come pochissimi – prima di morire, è riuscito a fare queste tre cose: avere un sogno, raccontarlo, viverlo.
Il sogno era quello di fuggire da quella grande tragicommedia – con poche nobiltà, un discreto numero di miserie e soprattutto tanta inutile mediocrità – che mettono in scena ogni giorno gli esseri umani. Il libro in cui lo ha raccontato era “il Giovane Holden”. Il posto in cui era fuggito era Cornish, 1661 anime, nel New Hamsphire. Lì Salinger ha vissuto per più di mezzo secolo, al riparo dal successo che proprio il suo sogno gli aveva fatto piovere addosso.
“Il Giovane Holden” arrivò nelle librerie nel 1951. Diventando, negli anni, prima un best seller, poi un long seller e infine un classico della letteratura in lingua inglese. Per tutta risposta Salinger se ne era andato quasi subito (nel 1953) da New York e si era ritirato a Cornish. E dopo qualche tempo, aveva pure smesso di pubblicare. Non di scrivere. Solo di pubblicare. Perché – così diceva – voleva scrivere soltanto per sé. Per il puro – puro – gusto di farlo.
Il suo eroe di carta, Holden Caulfield – il giovane Holden del titolo – sognava di far finta di essere sordomuto (”così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote e senza sugo”); di fuggire da New York; e di costruirsi una casetta “vicina ai boschi, ma non proprio nei boschi”, in modo tale che fosse “in pieno sole tutto il tempo”.
Il suo creatore, semplicemente, lo ha fatto.
Le interviste di Salinger si contano sulle dita di una mano. Non ha mai voluto che “il Giovane Holden” fosse glorificato da Hollywood con un film (anzi lo ha impedito con tutte le sue forze). Ha vissuto fino alla morte in quasi perfetta solitudine (o meglio: circondato solo da una valanga di libri; immerso nei suoi studi sul buddhismo Zen e sull’induismo; e con un discreto via vai di donne al suo fianco).
Uno schiaffo non solo, o non tanto al successo. Ma a un certo tipo di società e di successo. Alla fama al tempo dei mezzi di comunicazione di massa, che tutto sporcano, fagocitano, banalizzano. Al quarto d’ora di celebrità. Al far parlare di sé; bene o male non importa, purché se ne parli. Alla ricerca del consenso a tutti i costi. All’apparire per esistere. Al vippismo da venire, col triste codazzo di paparazzi e starlette. O almeno: io la sua biografia – quasi fosse anch’essa un romanzo – l’ho sempre letta, anzi voluta leggere così. Perché cosa davvero l’avesse spinto a ritirarsi nei boschi, in realtà, non lo so. E non lo saprò, penso, mai. Forse – come spesso capita agli esseri umani – non lo sapeva nemmeno lui. Perché con certi sogni ci nasci. E vai a capire perché.
Già. Perché. A dire il vero non so nemmeno perché sto scrivendo queste righe su questo blog che di tutto si occupa, tranne che di letteratura.
Anzi, no. Non sto dicendo il vero. Sto dicendo una bugia. Per nascondermi.
Se non avessi incontrato – tanti anni fa, sullo scaffale di una piccola libreria – l’eroe di carta Holden Caulfield, la mia vita con tutta probabilità sarebbe stata diversa. Probabilmente non avrei mai lavorato per un giornale. Probabilmente anche questo blog non esisterebbe. E probabilmente sarei un ingegnere parecchio infelice (voglio dire: non che gli ingegneri siano tutti infelici; io, ingegnere, sarei stato infelice).
Credo che vada così a tutti quelli che si innamorano – per davvero – della scrittura. Un giorno incontri un libro che non è come tutti quelli che lo hanno preceduto. Che ti accende qualcosa dentro. Che ti smuove qualcosa dentro. Allora cominci a sottolineare le frasi che ti colpiscono, anche se nessun professore ti ha detto di farlo. Allora, per la prima volta, pensi: devo rileggerlo; studiarlo; capirlo. E lo racconti a tutti con trasporto, come se fossi stato tu il primo uomo sulla Terra a scoprirlo. E’ come il primo amore. Ne seguiranno tanti altri, magari anche più importanti. Ma il primo non lo scorderai mai.
Dicevo: credo che capiti così un po’ a tutti. A me è capitato con “il Giovane Holden”. Che – a distanza di tanti anni dal nostro primo incontro – ho riletto un buon numero di volte. E che sta ancora sul mio comodino. Perché non si sa mai. Insomma: sentivo di avere un debito di riconoscenza. E ho pensato che questo – questo post, intendo – fosse un modo per cominciare a ripagarlo.
No. Mi dispiace. Anche queste, in fin dei conti, sono solo altre bugie. Voglio dire: il libro mi era piaciuto un sacco. E sì l’ho pure tutto sottolineato a matita. E – sì, lo ammetto – lo avrò anche fatto comprare a non so quante persone. Ma non esageriamo. Sapete come si dice? Son-cose-che-si-fanno-a-sedici-diciassette-diciott’anni. E anche se non l’avessi mai letto, non è che poi…, no? O no?
Non so.
E’ che ieri è morto J.D.Salinger, quello scrittore strambo che viveva nei boschi, col viavai di signore, i libri, e eccetera. E la verità – pura e semplice – è che io mi sento molto molto triste. Forse perché sono un po’ strambo anch’io.
Pensavo che a scriverci su, beh, questa tristezza poteva anche passare. Ma mi sbagliavo.
Com’è che si chiude “Il Giovane Holden”? Ah, sì. Pagina 248. Dice l’eroe di carta: “E’ buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti”. Già, è proprio buffo. Questa frase l’avrò riletta cento volte. E non l’avevo capita mai. Ora, forse, sì.
P.S. Questo l’ho scritto per me. E i commenti, quindi, sono chiusi. Perchè mi va così.