Quando anni fa sentii parlare per la prima volta delle gated communities ebbi l’impressione di stare ascoltando il racconto di un romanzo distopico ambientato in un prossimo futuro.
In realtà, le gated communities non hanno nulla di fantascientifico, e rispondono ad una precisa esigenza sentita da sempre più cittadini.
Più che una anticipazione del futuro, inoltre, queste “comunità” rappresentano un curioso ritorno al passato.
Si tratta, essenzialmente, di zone residenziali private composte da diverse unità abitative, da poche decine a qualche centinaio, riservate principalmente a cittadini benestanti, facenti parte del ceto medio – alto della popolazione.
Queste zone residenziali speciali possono formare dei paesi isolati, oppure occupare un quartiere all’interno di una città più grande, e sono solitamente cintate da muri e cancelli – da cui il nome – ed ogni abitante deve identificarsi all’ingresso per potervi accedere.
La caratteristica principale di tali agglomerati urbani infatti è proprio questa: il transito al loro interno è interdetto agli estranei, che potranno al massimo accedervi dietro necessaria autorizzazione.
Se, ad esempio, un abitante della community aspetta la visita di qualche conoscente che non abita nel quartiere, dovrà annunciarlo alle guardie giurate che controllano gli ingressi, comunicando l’orario dell’arrivo dell’amico, il suo nome, i dati di un documento di identificazione e il motivo della visita stessa.
La prima ragione dell’esistenza di tali comunità isolate è intuibile: il desiderio di sicurezza.
Dentro il quartiere infatti possono circolare solo gli abitanti, che col tempo si conoscono personalmente, e vi è inoltre un servizio di sicurezza offerto da guardie private pagato dai proprietari delle case.
Gli abitanti, inoltre, concorrono collettivamente per le spese urbanistiche, per la cura del decoro urbano e per i vari servizi comuni di cui hanno bisogno, facendo in questo modo delle loro zone residenziali delle piccole entità giuridiche in parte indipendenti.
Le gated comunities più grandi vengono così dotate di centri ricreativi, scuole materne, piscine comuni, bar, ristoranti, negozi, come fossero delle comunità autosufficienti.
Tale fenomeno urbanistico ebbe la sua origine negli Stati Uniti – dove si calcola che attualmente circa 10 milioni di persone vivano in una di queste comunità – e ben presto si è diffuso in altre nazioni, in particolar modo in stati in cui esiste una certa disparità tra le condizioni economiche dei più ricchi rispetto a quelle dei più poveri, come la Cina, il Brasile, L’Argentina, ed altri paesi del Sudamerica.
In Italia, esiste un progetto del 2007 che prevede la costruzione della prima gated community sul nostro suolo nazionale, all’interno del comune di Basiglio, a trenta minuti di Milano.
Nella presentazione dell’operazione comunicata dai media si descrive chiaramente l’idea dell’abitare a cui il progetto si ispira:
A Basiglio, a due passi da Milano 3, sta per nascere quella che potrebbe essere la prima gated community italiana, una città nella città in un ambiente superprotetto e immerso nel verde, senza auto e con tutti i servizi di un hotel cinque stelle che sarannno fornite da società esterne al quartiere.
L’idea funziona da anni negli Stati Uniti, soprattutto fra le famiglie del ceto medio-alto, per proteggersi dal crimine.
L’immobiliarista Danilo Doronzo, che guida la Milano Holding Goup, ha deciso di importare in Italia il modello che, secondo gli ideatori, rappresenta l’evoluzione d’iniziative come Milano 2, lanciate negli anni ‘70 da Silvio Berlusconi.
La sicurezza, però, è solo uno degli aspetti che lo interessano.
La differenza rispetto ad altri progetti simili sarà data dalla qualità dei servizi. «Sarà il regno del silenzio – spiega Doronzo – uno spazio dove i bambini potranno circolare liberamente senza che nessuno possa entrare in assenza di autorizzazione e dove una società di gestione esaudirà tutte le richieste dei proprietari, dai servizi di baby sitting alla consegna della spesa, fino all’innaffiamento dei fiori 24 ore su 24».
I lavori di Cascina Vione partiranno a febbraio e dureranno tre anni. Si tratta di un progetto da 80 milioni di euro finanziato per 53 milioni da Bpm su un’area di 100mila metri quadri, di cui solo 25mila saranno costruiti.
«Rispetteremo le metrature esitenti», precisa Doronzo.
L’obiettivo infatti è creare un ambiente esclusivo per circa 150 famiglie che avranno modo di veder rifiorire un complesso che risale al Milleduecento.
All’interno di questo spazio si circolerà rigorosamente a piedi: «Anche le biciclette – precisa Doronzo – resteranno fuori mentre per le auto ci saranno i parcheggi sotterranei».
Da un certo punto di vista, il fatto che un gruppo di cittadini decida di abitare in una zona residenziale comune isolata dall’esterno può considerarsi del tutto legittima, secondo gli standard attuali della proprietà privata.
In fondo, l’operazione in sé non ha nulla di diverso rispetto al cingere con cancellate e muri il lotto della propria abitazione privata.
Si tratta semplicemente di un passaggio di scala, dal momento che all’interno dei muri rientrano diverse proprietà, e non una sola, creando un piccolo agglomerato urbano.
Nondimeno, l’idea che all’interno di una città esistano zone più o meno ampie dotate di strade a cui un normale cittadino non possa accedere stride con la nostra stessa abitudine di “utilizzatori di città”.
Risulta infatti normale e scontato incontrare terreni recintati, parchi privati ed in generale edifici non pubblici a cui non è possibile accedere, ma diviene più difficile concepire delle strade e dei quartieri interamente privati, con tanto di cancelli di ingresso e guardie armate che vigilano e controllano affinché nessuno non autorizzato possa varcarne la soglia (come si diceva all’inizio dell’articolo, tale situazione ricorda molto i borghi fortificati dei secoli passati, con le sentinelle del signore attente a non far entrare potenziali nemici entro le mura; alle gated communities manca solamente il ponte levatoio).
Inoltre, specialmente nei paesi con maggior disparità sociali, non può non stridere il contrasto tra l’ordine e l’agiatezza delle zone residenziali private e la povertà e la miseria che iniziano subito all’esterno delle cancellate.
Da un punto di vista urbanistico – sociale, le gated communities denunciano in qualche modo anche il fallimento della metropoli contemporanea, con la sua pretesa di multiculturalità e commistione tra i diversi strati sociali della popolazione.
Queste entità residenziali, d’altra parte, non fanno altro che ricreare i vecchi villaggi che caratterizzavano fino a pochi secoli fa il mondo pre-moderno, dove un numero ristretto di famiglie che condividevano le stesse condizioni economiche e sociali vivevano all’interno di un piccolo nucleo urbano; in tali comunità era assente la figura dell’estraneo, dal momento che tutti si conoscevano a vicenda, e da questo derivava un certo senso di sicurezza.
Gli esseri umani, infatti, sono esseri sociali, ma una loro innata predisposizione, risalente all’alba dei tempi, li porta a dividere le persone che li circondano in due categorie, conoscenti ed estranei, ed una sorta di istinto primordiale porta naturalmente ogni uomo ad essere diffidente nei confronti dei secondi.
Nelle piccole comunità, l’essere circondati da conoscenti, da persone di cui è noto il nome, la storia e il carattere, dà all’individuo un naturale senso di sicurezza, mentre nei grandi conglomerati, dove tutti sono estranei, le reazioni sono assai diverse: si va da una lieve diffidenza ad un vero e proprio sentimento di costante insicurezza.
Le gated communities ricostruiscono, forse in maniera inconsapevole, quell’antico modo di abitare, un mondo chiuso fatto di volti noti e persone simili e di conseguenza rassicuranti.
Ma se da questo punto di vista si crea una unità tra i membri di queste piccole comunità, dall’altra si accentuano ancora di più le differenze tra coloro che hanno una certa disponibilità economica e la grande massa che ne rimane fuori, facendo in modo che le diseguaglianze della società si accentuino ancora di più.