Le lancette dell’orologio, per l’Italia, continuano a girare vorticosamente. Ma in un’unica direzione: all’indietro. Dopo il ritorno in pompa magna delle leggi ad personam (prima sotto forma di Lodo Alfano, ora diventato legge sul legittimo impedimento) e dopo la resurrezione dei “girotondi” (ribattezzati popolo viola), adesso tocca pure all’economia fare la fine del gambero. Primo passo (chiaramente e sempre all’indietro): il governo guidato dal sempiterno Cavalier Silvio Berlusconi da Arcore vorrebbe reintrodurre le tariffe minime per chi ha la fortuna di appartenere ad un ordine professionale. Si dovrebbe cominciare con gli avvocati. Ma chissà che poi non tocchi a ingegneri, geometri e quant’altri. Il tutto – va da sè – alla faccia della concorrenza e del libero mercato, un tempo parole d’ordine di quel Berlusconi d’antan, che negli anni Novanta si definiva un imprenditore prestato alla politica. E  soprattutto alla faccia di consumatori e imprese. Che dovranno rimettere nel cassetto il sogno di contrattare i prezzi con i Perry Mason nostrani, come farebbero per comprare altri beni o servizi.

E dire che per fare qualche passettino in avanti sul fronte dei privilegi riservati agli appartenenti agli ordini professionali, si erano dovuti infrangere tabù più radicati delle sequoie secolari.

Tabù che si erano, alla fine, in parte sgretolati grazie a persone come Ivone Cacciavillani presidente dell’ Associazione veneta degli avvocati amministrativisti ed ex docente d’Istituzioni di diritto pubblico. Cacciavillani – in un’intervista al Corriere della Sera, ormai 5 anni fa – spiegò anche ai profani e senza tanti pelli sulla lingua com’eravamo messi: “In Italia tra Ordini, Collegi e Albi siamo a quota 72, una cosa incredibile, davvero da Medioevo. Sono corporazioni organizzate per difendere gli iscritti e non certo i cittadini, dove vige il diritto dell’ arca di Noé“. Ovvero? “Si fa una fatica bestiale per entrarci, ma una volta dentro si naviga tranquilli: un iscritto se non mangia i bambini o non attenta all’ integrità della Repubblica, resta iscritto a vita“. Il battagliero avvocato ed ex docente, però, non si era limitato a spendere cattive parole ed era passato, come spiegò sempre al Corriere, alle vie di fatto: “Sono contrario alle imposizioni. Le tariffa minime non difendono gli avvocati bravi che hanno caso mai il problema opposto. Nel mercato conta solamente la qualità professionale. Se faccio pagare un onorario stracciato e valgo zero, truffo il cliente. Le tariffe massime non vengono rispettate, basti pensare alle parcelle milionarie chieste dai big delle varie professioni. Allora molto meglio abolire tutto. Quattro anni fa ho fatto causa a diversi Ordini professionali per violazione della legge sulla concorrenza e l’Autorità del Garante mi ha dato ragione“.

E a dar ragione al coriaceo Cacciavillani non era stata soltanto l’Autorità garante per la concorrenza. Il governo Prodi – nel 2006 – mise finalmente mano alla questione. L’allora ministro per lo Sviluppo economico – e ora segretario Piddì – Pierluigi Bersani abolì tariffe minime e divieto di farsi pubblicità (perché, sì, al tempo agli appartenenti ad ordini professionali era vietato anche farsi concorrenza a colpi di pubblicità). Una decisione – quella del governo Prodi – che venne benedetta, in nome della concorrenza, anche dalla Corte di giustizia europea. Per altro non era un cambiamento epocale: gli ordini rimanevano intatti al loro posto, compreso, appunto, quello degli avvocati. Ma niente da fare. I Perry Mason de’ noantri salirono subito sulle barricate. Prima a colpi di scioperi. Poi con la tattica dell’ostruzionismo.

Ostruzionismo che ha funzionato – invero – alla perfezione. L’Autorità garante per la concorrenza ha cercato di vigilare sull’applicazione delle norme su tariffe minime e pubblicità. Il risultato della mini-riforma Bersani? Zero, nada, nessuno. L’Autorità – dopo un’indagine lunga più di due anni e i cui risultati sono stati resi pubblici a marzo 2009 – è arrivata alla conclusione che la mini-riforma è rimasta pressoché lettera morta. In altre parole: in pochi si azzardano a farsi pubblicità per davvero e le tariffe minime sono rimaste al loro posto. Possibile? Possibile. Tanto è vero che anche voci critiche contro la mini-riforma Bersani – cioè la stragrande maggioranza degli avvocati – hanno finito per dare ragione all’Autorità per la concorrenza. Un esempio? Maurizio De Tilla – presidente della Cassa nazionale di previdenza forense e fiero anti-bersaniano della prima oraha spiegato, pure lui in un’intervista al “Corriere”, che anche dal suo punto di vista l’eliminazione delle tariffe minime era stato un fallimento. Perchè? “È successo il contrario di ciò che si aspettava il ministro: invece di proteggere i cittadini, il pacchetto difende le lobby”, sentenziò De Tilla. Sarebbe a dire? “Banche, assicurazioni, enti pubblici e multinazionali – disse, senza tanti giri di parole, De Tilla – oggi propongono convenzioni a chi offre di meno (tradotto in italiano: banche e compagnia spuntano agli avvocati prezzi migliori, NdA). Invece ai clienti privati si continua ad applicare il tariffario“.

Ah, però.

E perché ai clienti privati, ossia al semplice cittadino, si continua ad applicare il tariffario, se la legge dice il contrario? Mistero. Questo De Tilla si è guardato bene dal chiarirlo. Ma fatto sta che – negli anni – “Autorità per la concorrenza” e Ordine degli avvocati sono arrivati alla stessa conclusione: la mini-riforma Bersani non ha funzionato, se non in minima parte. Epperò: secondo l’Autorità per la concorrenza occorrerebbe una nuova legge per finire di scardinare gli ostacoli che impediscono al mercato di funzionare; mentre per gli avvocati – invece – ci vorrebbe un ritorno al passato, con tariffe minime e tutto quanto.

Inutile dire a chi ha intenzione di dare ragione il governo.

Si diceva: inutile dirlo, perché lo si è già detto al principio. Proprio il Corriere della Sera, ieri, ha pubblicato in prima pagina una solenne dichiarazione del ministro per la Giustizia, Angelino Alfano: “L’abolizione delle tariffe minime, senza dare alcun beneficio ai cittadini, ha tutelato i più forti e ha danneggiato i professionisti”. Esattamente lo stesso concetto – coincidenza vuole – formulato dalla lobby degli avvocati. Lobby di cui Alfano – che è avvocato -, sempre per coincidenza, fa parte.

Un concetto curioso: se una riforma incontra resistenze  e non viene applicata, allora va eliminata. Ma tant’è. A quanto pare, finirà proprio così. In Parlamento ha già preso forma una nuova riforma dell’ordinamento forense che prevede – tra l’altro – esami più severi per l’accesso alla professione di avvocato e appunto la reintroduzione delle tariffe minime. Un provvedimento che la commissione Giustizia del Senato – giusto a novembre dell’anno scorso ha approvato con voto bipartisan. Cioè: hanno votato a favore sia la maggioranza di centrodestra che il centrosinistra di quel Bersani che le tariffe minime le aveva abolite. Magie della politica. E delle solite coincidenze. Perché coincidenza vuole che gli avvocatisecondo i calcoli de “il Sole 24 ore” siano la categoria professionale più rappresentata in Camera e Senato (per la precisione, secondo “il Sole”, sono avvocati il 14% dei deputati e il 14,3% dei senatori).

Tutti d’accordo e tutto bene, quindi? Non proprio. A non essere affatto d’accordo sulla riforma della riforma sono alcuni avvocati. Quelli giovani. Che hanno dato vita ad un’associazione ad hoc: l’Unione giovani avvocati italiani (Ugai). E che dalle nuove (o vecchie, dipende dai punti di vista, diciamo) regole si sentono penalizzati. Perché, appunto, rendendo più difficile l’accesso all’ordine, si penalizzano i giovani praticanti, in favore di chi avvocato lo è già. E perché sempre i giovani non potranno più conquistare spazio e clienti, offrendo gli stessi servizi, ma a tariffe più basse. Eppure – come disse, in un’intervista a “il Salvagente”, il presidente dell’Ugai, Gaetano Romano – l’abolizione delle tariffe minime non aveva provocato danni ai clienti. Anzi: “L’Ordine – spiegò Romano – sostiene che l’assenza di tariffe minime possa dequalificare la profes-sione, eppure non è stato ancora documentato un solo caso di cliente danneggiato dalla loro abolizione“. Al contrario, secondo il presidente dei giovani avvocati, una maggior iniezione di concorrenza poteva portare non solo compensi più bassi, ma anche prestazioni migliori, maggiore attenzione per i propri clienti e “conclusione delle cause in tempi più brevi”.

Argomentazioni ragionevoli. Condivise anche dall’Autorità per la concorrenza (che aveva invitato l’ordine degli avvocati ad aprirsi di più ai giovani). E che sono rigorosamente cadute nel vuoto.

Diceva Ivone Cacciavillani, sempre 5 anni fa, e sempre nella medesima intervista al Corriere: “Se penso agli Ordini” professionali “che non vogliono in nessun modo perdere il loro potere”, dico che a una riforma vera della professioni “non ci arriveremo mai. Però la novità di questi ultimi anni è rappresentata dal continuo aggravarsi della crisi del sistema, che denota l’ assoluta inadeguatezza dell’ attuale assetto e se andiamo avanti così, forse qualcosa potrebbe succedere”. In effetti la crisi di sistema ora – grazie alla crisi economica – è arrivata per davvero. L’Italia, l’anno scorso, ha perso cinque punti di Pil. Peggio della media degli altri Paesi europei. E mai così male, da quando si fanno queste statistiche (anno di grazia, 1974). Aveva ragione Cacciavillani: con la crisi sono arrivate anche le riforme degli Ordini. Peccato che vadano nella direzione sbagliata: più imbalsati di ieri, ma meno di domani.

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