DI
MARCO DELLA LUNA
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Berlino autorevolmente prescrive alle altre capitali dell’Eurozona di affrontare l’inverno con una dieta ipocalorica. Di conseguenza, in Italia, sull’agenda del che sarà in carica nella prossima primavera, campeggia l’esecuzione di un’imposizione comunitaria (cioè tedesca) ad abbattere fortemente o ad annullare il deficit di bilancio per riportare il debito pubblico al 60% del pil in 5 anni – cosa che si può fare solo tagliando gli investimenti e i servizi pubblici, e alzando le tasse, e che darà pretesto per far cassa svendendo i pezzi migliori del patrimonio pubblico ai soliti amici e parenti. Peccato che, come già provato e riprovato, e come la confraternita dell’Ecofin sa benissimo, questa ricetta provochi contrazione dei consumi e degli investimenti privati, quindi calo del pil e del gettito fiscale e della capacità di avviare il rimborso del debito pubblico. Cioè peggiori la crisi impedendo di uscirne.
Tranne che in Germania, unico grande paese europeo che non sia in recessione bensì in forte espansione e che, quindi, abbia non danno, ma vantaggio (salvo quanto si dirà sotto) da una politica di rigore e raffreddamento, e che prevenga l’inflazione, soprattutto finché non sarà completata l’assimilazione perequativa dell’ex DDR, in cui fermentano ancora nostalgie comuniste e neonaziste. Quello che si sta per imporre a tutti i paesi europei è una politica di rigore che è stabilizzante e anticiclica per i paesi con economia in crescita, e depressiva (prociclica) per quelli con economia fiacca. E’ come se, in un gruppo di persone di cui alcune sono sovralimentate e sovrappeso, e le altre, la maggioranza, sottoalimentate come i prigionieri dei campi di concentramento, le prime imponessero alle seconde una drastica dieta dimagrante, chiamandola “virtuosità”.
E’ comune nozione di economia politica, nonché prontamente intuibile, che un paese in recessione, con fattori produttivi non attivati per mancanza di liquidità, come è l’Italia oggi, ha bisogno di investimenti, per ripartire e rialzare la produzione attivando i fattori inoperosi, dalle tecnologie alle maestranze disoccupate o cassintegrate. Ha bisogno di investimenti dapprima pubblici, perché i privati non tornano ad investire finché non vi è ripresa economica. Lo Stato deve quindi spendere (anche deficit) per investimenti, perché i suoi investimenti aumenteranno il reddito, il pil, la liquidità, incoraggiando gli investimenti privati; e tali aumenti aumenteranno il gettito fiscale, permettendo così di iniziare a ridurre lo stock di debito pubblico. Se un paese come l’Italia, con un deficit e un debito pubblico alti, scarse infrastrutture, bassa innovazione, cedente competitività, in una fase di recessione come l’attuale, dovesse abbattere ulteriormente la spesa pubblica, innanzitutto ridurrebbe i redditi e la quantità di liquidi disponibile al mercato, e ciò di per sé indurrebbe più recessione. Non sarebbe una policy virtuosa, ma stolta e suicida. Inoltre, non potendo ridurre se non marginalmente la spesa corrente (costituita perlopiù da interessi passivi, stipendi, pensioni, sanità), dovrebbe fare due cose: azzerare praticamente la spesa per investimenti (ricerca, infrastrutture, innovazione) e aumentare la tassazione. La seconda cosa indurrebbe un calo della domanda interna. La prima cosa, impedendo l’ammodernamento e l’infrastrutturazione, e prevenendo il ritorno dei capitali privati nell’economia reale, produrrebbe con certezza l’effetto di rendere l’economia italiana rapidamente obsoleta e a livello nordafricano, di renderla non più in grado di competere con quelle avanzate e forti, soprattutto con la Germania (ed è appunto ciò che la Merkel vuole). Il conseguente calo del pil in breve tempo rigenererebbe un alto deficit e l’impossibilità definitiva di ridurre, o forse anche di sostenere, il debito pubblico. Si va verso il default.
La ricetta di rigore imposta in sede UE dalla Germania, dietro i suoi falsi scopi dichiarati, ha quindi questo chiarissimo fine: sabotare ed eliminare, imponendo la pseudo-virtuosità, quei paesi europei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Francia) le cui economie potrebbero fare concorrenza a quella tedesca. La Germania vuole assicurarsi sviluppo e occupazione eliminando i concorrenti. Inoltre, mettendoli in condizione di non poter sostenere il loro debito pubblico, li forzerà a uscire dall’Euro, oppure creerà sull’Euro tensioni tali, da essere legittimata, o costretta, ad uscirne essa stessa, come già vuole il 65% dei tedeschi. Ma non lo poteva fare al tempo della crisi greca, e nemmeno oggi: prima deve completare l’opera, tagliare a fondo e per sempre (Endlösung, soluzione finale) le gambe ai concorrenti, in modo tale che non possano ricrescere, perché altrimenti questi potrebbero ancora farle un’efficace concorrenza. Li tiene stretti entro l’Euro, valuta forte, per soffocarne la concorrenzialità internazionale, la capacità di esportare, il potenziale manifatturiero, così che affondino nel debito estero. Solo dopo di ciò li lascerà, o li farà, uscire dall’Euro.La politica del governo tedesco mira pertanto a mettere in ginocchio l’Europa, per poi assumerne il dominio, l’egemonia, o – per dirla alla tedesca – la Führerschaft, e a farne il suo Lebensraum, lo spazio vitale, nel quale assorbire l’aliquota di tedeschi disoccupati già ora generata dalla sua politica monetaria “renana” di pareggio di bilancio, niente inflazione, alti tassi, alti investimenti. E in cui smerciare i suoi prodotti a superiore tecnologia, stabilendone il prezzo pressoché unilateralmente (price maker). Berlino vuole restare la sola potenza del Vecchio Continente, col suo contorno di piccoli paesi, satelliti della stirpe germanica e della sua valuta: i Währungsangehörigen. Le sue imposizioni di politica monetaria in sede comunitaria, per violenza e distruttività, sono equivalenti a una campagna militare. Sì, il sogno di conquista è tornato, a Berlino. Angela Merkel, come qualsiasi Bundeskanzler, risponde delle sue azioni solo ai Tedeschi, non agli altri Europei. Impone le sua politica economico-finanziaria a tutta l’Eurozona, però la decide guardando al consenso e all’interesse dei soli Tedeschi. A cui sacrifica l’interesse degli altri popoli. Questo si chiama imperialismo. Imperialismo ostile. Esso, relegando le istituzioni europee, coi vari Van Rompuy e Solana, al ruolo di comparse, di immagini di facciata, senza potere proprio, toglie alle istituzioni europee la capacità di rappresentare i cittadini europei. Quindi delegittima l’Unione dal punto di vista della democrazia: non esiste, infatti, legittimazione democratica senza rappresentanza.
Oggi come le altre volte, i piani di supremazia della Germania sono tecnicamente ben architettati, ma sono basati sul principio del conflitto tra i propri interessi nazionali e tutti gli altri popoli e del non ricercare soluzioni accettabili anche per gli altri paesi; inoltre, non tengono conto delle vastissime forze che il loro stesso successo potrà suscitare e coalizzare, come già due volte è avvenuto nel secolo scorso, contro lo Herrenvolk, il “popolo dei padroni”. Difetto mentali che la politica tedesca non vuole ancora correggere. Continua a cercare il consenso interno intorno a piani che pongono la Germania come nemico rispetto ai paesi vicini. “Ich habe den Krieg nicht gewollt – Io non ho voluto la guerra”, fu la balbettante autodifesa del Kaiser, alla fine del 1918, tre anni dopo che i Francesi li ebbero fermati sulla Marne, al prezzo di molto sangue. Vedremo presto se Sarkozy ha quello stesso sangue, ossia se denuncerà e contrasterà come antieuropeo, antiumanitario ed egemonico il disegno tedesco; oppure se, nel timore di un confronto economico-monetario con Berlino, comprerà, con molte concessioni in termini di appoggio alla loro linea, una pace separata con gli interessi germanici, dimenticando che, una volta sistemati gli altri, toccherebbe ineluttabilmente anche alla Francia.
E’ però in atto un trend evolutivo verso un altro scenario. La politica economica del governo Merkel sta sì dando forza e propulsione alle esportazioni tedesche e alla parte di industria che le alimenta (ossia al settore globalizzabile), ma il resto dell’economia tedesca, nel complesso, va male – peggio di quella italiana. Ciò da un lato conferma che la Merkel persegue obiettivi di grande potenza, di egemonia sull’Europa; ma dall’altro lato può indebolire il consenso interno della Merkel – o meglio, può alienarle la fiducia di tutta quella parte della popolazione e delle forze economiche che non traggono vantaggi concreti dall’espansione del settore globalizzato. L’importante è allora che i Tedeschi si accorgano che la politica economica imperialista del loro attuale governo è in realtà contraria ai loro interessi, che li sta impoverendo e, insieme, rinchiudendo in un isolamento internazionale che potrebbe avere risultati disastrosi per loro, e altresì per l’Europa, ancora una volta. Ma altrettanto importante è che in tutto il mondo ci si renda conto degli inevitabili effetti rovinosi (per i più) di un’organizzazione economica mondiale che porta alla sopravvivenza del più forte (dell’impresa più forte, del sistema-paese più forte) nella competizione per la conquista dei mercati dell’esportazione e per l’accaparramento delle risorse naturali ai costi minori possibili. E che verosimilmente sarebbe invece sostenibile un sistema come quello ripetutamente proposto dall’economista Nino Galloni (vedi, da ultimo, il suo Prendi i tuoi soldi e scappa?, Koiné 2010), in cui i diversi ambiti dell’attività produttiva umana abbiano regimi differenziati conformemente alle loro diverse nature e finalità: vi dovrebbe essere un primo settore – quello degli scambi internazionali – in cui vige la competizione darwiniana (salvi accordi internazionali di solidarietà e stabilità globali) riguarda, in quanto alle esportazioni, le eccedenze delle produzioni locali o nazionali; e, in quanto alle importazioni, i beni e i servizi non localmente producibili; un secondo settore – quello della produzione per i bisogni locali o interni – regolato in modo che si producano localmente tutti i beni e i servizi localmente producibili a costi ragionevoli, cioè tali da consentire un profitto -; un secondo settore – quello dei servizi primari e alle funzioni pubbliche, sottratto alla logica del commercio e del profitto, ma organizzato e gestito con criterio di efficienza economica; e un quarto settore – quello della creatività artistica, letteraria, etc. – interamente sottratto alla competizione commerciale per la sopravvivenza, e alla stessa logica del profitto e dell’economia.
Un tale sistema avrebbe molteplici effetti positivi per le popolazioni:
-riduzione dei costi (finanziari ed ecologici) per i trasporti delle merci in giro per il mondo (utile dato il trend di aumento dei costi di estrazione e raffinazione del petrolio);
-incentivazione delle reti produttive e sociali locali, del patrimonio umano, della qualità;
-riduzione della dipendenza delle nazioni, dei consumatori, dei lavoratori dai cartelli e monopoli-monopsoni multinazionali o sovrannazionali in quanto alla fornitura e all’acquisto di beni e servizi.
Galloni osserva anche che un tale sistema consentirebbe di risolvere le tensioni monetarie, quali l’insostenibilità dell’Euro forte per larga parte di Europa. Infatti consentirebbe avere una moneta per gli scambi internazionali, come l’Euro, e una per l’economia interna, affiancata da monete complementari e alternative, locali o in rete, quali già sono in uso in molti paesi anche europei.
Dato però che il potere di fatto, e anche, sempre più, anche di diritto, è nelle mani dei suddetti cartelli e monopoli-monopsoni internazionali, e che questi hanno tutto l’interesse e mantenere e coltivare la dipendenza e l’insicurezza delle popolazioni rispetto ad se stessi, è del tutto inverosimile che un tale modello venga introdotto nel mondo reale, e che, prima e piuttosto di dar luogo ad esso, si darà luogo a soluzioni temute e prevedibili.
Marco Della Luna
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