DI

SPENGLER
atimes.com

 

 

 

 

 

 

 

 

Le vittime civili sono la valuta di scambio della diplomazia in Medioriente. La questione militare nella regione non è mai consistita nella capacità o meno di Israele di schiacciare i suoi avversari bensì nel diritto a farlo. Iran e Siria hanno fornito a Hezbollah 50,000 razzi, molti di questi in grado di colpire obiettivi in Israele con una certa precisione. Molti sono stati piazzati sotto le case, le scuole e gli ospedali. Migliaia di civili usati come inconsapevoli scudi umani morirebbero se Israele decidesse di distruggere quei razzi.
Troppi danni collaterali “macchierebbero la coscienza del mondo”, come ha declamato il presidente americano Barack Obama parlando della Libia. Con queste parole in mente, il presidente siriano Bashar Al-Assad e altri dittatori arabi hanno rafforzato la posizione strategica di Israele svendendo la vita degli arabi.
Altri 34 siriani sono morti durante le proteste del venerdì 8 aprile, il maggior numero fino a questo momento, portando il conto dei morti a 170 nelle ultime tre settimane.
Intanto, le stime dei morti nella guerra civile in Libia variano da 1000 a 10000. Nessuno ha fatto caso alla ventina di morti causati dall’attacco sferrato su Gaza da Israele come rappresaglia. Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Mark Toner, ha condannato, durante un briefing tenuto il 7 aprile, l’ultimo attacco con razzi su Israele “nella maniera più determinata”, ma non ha detto nulla sulla rappresaglia israeliana.
Le sue parole annunciano ciò che sta per accadere. Assad può anche aggrapparsi al potere ma la Siria ha perso ogni prospettiva di giocare alcun ruolo nei negoziati di pace. Una pace condivisa è impossibile senza la Siria, e questo spiega perché Washington non ha ordinato la cacciata di Assad così come ha fatto con il colonnello Gheddafi.
Una richiesta del genere potrebbe equivalere all’annuncio della morte degli accordi di Oslo. Per ragioni da me esposte in un recente saggio (Food and Syria’s Failure, 29 marzo), la Siria può solo continuare a dividersi. La miglior mossa di Israele è quella di puntare tutto sulle elezioni presidenziali americane del 2012 mentre i suoi possibili avversari vanno verso il caos, e aspettare la giusta opportunità per fare i conti con Hamas e Hezbollah.
L’Iran e i suoi rappresentanti non possono battere Israele in una guerra aperta, ma sperano di provocarne l’isolamento diplomatico e l’imposizione di insediamenti entro le linee del cessate il fuoco del 1949. Con soli 13 km tra il territorio arabo e il mare, Israele sarebbe vulnerabile ad attacchi di razzi al confine occidentale, al nord e al sud, e si sentirebbe anche accerchiato militarmente per la presenza di uno stato palestinese riconosciuto. Una tale “tattica del salame”, secondo Iran e Siria, porterebbe Israele a una posizione insostenibile.
Solo un paese ha un qualche peso in questa faccenda, ovvero gli Stati Uniti. Sotto l’amministrazione Bush, la politica americana ha rifiutato in modo esplicito di effettuare la tattica del salame. In cambio della ritirata di Israele da Gaza, Bush ha consegnato una lettera all’allora primo ministro Ariel Sharon, sostenendo che “alla luce delle nuove realtà in campo, includendo i grandi centri abitati israeliani esistenti, non è realistico aspettarsi che il risultato dei negoziati possa essere un totale e completo ritorno all’armistizio del 1949”, così come riportato il 29 giugno del 2009 dal consigliere di Sicurezza Nazionale Elliot Abrams sul Wall Street Journal.
D’altro canto, Condoleeza Rice, che al tempo era segretario di stato, si è inventata un insediamento per la guerra dell’agosto 2006 al confine settentrionale israeliano, obbligando Israele ad accettare le garanzie internazionali circa la demilitarizzazione del Libano meridionale, ignorate da Iran e Libia e che gli USA non hanno fatto nulla per rafforzare.
Diversamente, Obama si affida a consiglieri che in passato hanno proposto un intervento militare internazionale per imporre un insediamento. Samantha Power, l’architetto del recente intervento in Libia, è diventata una necessità per la campagna presidenziale di Obama nel 2008 quando il giornalista Noah Pollak ha scoperto [1] un’intervista della Power del 2003 nella quale lei invocava esplicitamente un intervento militare per imporre un insediamento: “Entrambi i leader politici [Arafat e Sharon] sono stati terribilmente irresponsabili. Questo fatto, sfortunatamente, comporta la necessità di un intervento esterno”.
La Power è stata destituita dalla campagna elettorale per aver insultato Hillary Clinton in pubblico e le è stato assegnato un ruolo minore sui diritti umani presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Obama, ma da allora è emersa come primo consigliere di Obama per il Medioriente.
La Power ha sconfessato la sua proposta di intervento del 2003, ma è improbabile che la sua idea sia cambiata, data la sua duratura devozione alla politica dei “diritti umani”. Il 5 aprile scorso, Stanley Kurtz ha stilato un profilo [2] delle sue idee radicali nella National Review, concludendo: “ Obama e Power stanno cercando di farci abituare a un approccio mentale completamente nuovo nei confronti della guerra, e circa il ruolo dell’America nel mondo. “L’obiettivo dell’intervento in Libia non è quello di affermare gli interessi americani, ma di prevenire le morti di civili.
Tuttavia, la Power non è solo insidiosa ma anche incompetente. Il suo premio Pulitzer per la cronaca sui diritti umani non l’ha preparata alle spiacevoli realtà in campo nel Medioriente. Ha speso tutte le sue energie prematuramente sulla Libia, mettendo l’America in una posizione imbarazzante.
I discontinui raid aerei della NATO hanno avuto un basso impatto sui risultati, e le disorganizzate forze ribelli (che annoverano elementi di Al-Qaeda) sono crollate sotto i contrattacchi di Gheddafi. L’America ha piantato il vecchio alleato Hosni Mubarak in Egitto e ha bombardato Gheddafi, che aveva collaborato con l’antiterrorismo americana, senza riuscire a cacciarlo. L’intervento limitato da parte degli Stati Uniti contribuirà al prolungamento della guerra civile e alla catastrofe umanitaria, ridicolizzando l’idea di intervento per proteggere le vite dei civili. I recenti dubbi personali del giudice Richard Goldstone sulla sua accusa all’esercito israeliano di aver deliberatamente mirato ai civili nelle incursioni a Gaza, sono arrivati al tempo giusto per lo stato ebraico. L’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite Susan Rice ha dichiarato che gli Stati Uniti vogliono che il rapporto Goldstone del 2009 presso la Commissione dei diritti umani dell’ONU, “sparisca”.
La Siria si dimostrerà impossibile da stabilizzare, per ragioni che ho esposto nel mio saggio del 29 marzo, e spiegate in dettaglio dall’economista Paul Rivlin [3] in una nota rilasciata lo stesso giorno dal Moshe Dayan Center dell’Università di Tel Aviv, intitolato “Dietro le tensioni in Siria: la dimensione socio-economica”.
Ampiamente citata nella stampa araba, la relazione di Rivlin è stata ignorata dai media occidentali – indice di quanto poco l’élite occidentale riesca a capire i problemi di fondo. La Clinton è stata ridicolizzata per aver chiamato Assad un “riformista” (in realtà, lei ha detto che qualche membro del congresso lo ritiene un riformista). Rivlin spiega che il presidente siriano è un riformista, almeno sul piano dell’economia. Il problema è che la società siriana è troppo fragile per assorbire le riforme senza un contraccolpo per il 30% dei siriani che vive sotto la soglia ufficiale di povertà con 1.60 dollari al giorno. Come spiega Rivlin:

L’agricoltura siriana sta soffrendo per l’avvicinamento del paese alla cosiddetta “economia sociale di mercato ” e per l’introduzione di un nuovo regime di sussidi in osservazione degli accordi commerciali internazionali, includendo l’accordo di associazione con la UE (ancora non ratificato dalla Siria). La politica agricola precedente è stata pesantemente interventista, assicurando (a costi molto elevati) la sicurezza alimentare del paese e fornendo alla popolazione la possibilità di accedere a cibo a basso costo. Ora viene sostituita da un modello più liberale che comporta gravi conseguenze per i coltivatori e per i contadini, che valgono circa il 20% del PIL nazionale e della forza lavoro del paese.

Il settore agricolo siriano, aggiunge Rivlin, è stato ulteriormente colpito da una siccità durata 4 anni: “I piccoli agricoltori sono stati i più colpiti; molti non sono stati in grado di produrre abbastanza cibo o di guadagnare abbastanza per alimentare le proprie famiglie. Come conseguenza, decine di migliaia hanno lasciato il nordest e ora abitano in insediamenti irregolari o nei campi presso Damasco”.
Assad ha eliminato i sussidi per il carburante e ha liberalizzato i prezzi di mercato, aggiunge Rivlin. “All’inizio del 2008, i sussidi per il carburante sono stati aboliti e come risultato il prezzo del diesel è aumentato del triplo da un giorno all’altro. Di conseguenza, durante l’intero anno i prezzi dei beni alimentari è aumentato notevolmente e ha raggiunto cifre enormi grazie alla siccità. “I blogger siriani hanno fatto trapelare, dopo che i tentativi del regime di tenere bassi i prezzi hanno provocato la corsa agli accaparramenti, che in questo contesto verso la fine di febbraio i prezzi degli alimenti in Siria sono balzati all’insù del 30% .
L’aumento dei prezzi degli alimenti ha colpito la società siriana come uno tsunami, mettendo in evidenza l’incapacità del regime di modernizzare un paese arretrato, corrotto e diviso. Come l’Egitto, la Siria non è in grado di farcela. Rivlin dubita che il regime possa crollare. Conclude così: “L’élite urbana è stata soddisfatta dalla liberalizzazione economica, ora essa teme che una rivoluzione possa portare al potere una nuova classe politica che fa leva sulla povertà delle campagne, o che semplicemente possa portare la Siria al caos. L’alleanza della comunità affaristica sunnita con le forze di sicurezza dominate dagli alawiti costituisce la base del regime e dal momento che ci sono settori della popolazione che si ribellano, ha tutto quel che serve per combatterli.”
L’esito più probabile è un prolungato periodo di instabilità nel quale le due fazioni che non hanno niente da guadagnare dai compromessi e tutto da perdere dalla sconfitta, si combatteranno per le strade. Come lo Yemen e la Libia, la Siria proverà che è impossibile stabilizzarla; e non è affatto certo che l’esercito egiziano riesca a prevenire un tale precipizio verso il caos.
Come dichiarato da Anwar Raja, leader a Damasco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, all’agenzia russa RIA Novosti lo scorso 2 aprile: “La Siria ha un ruolo chiave nella regione come sostegno ai movimenti di resistenza nel mondo arabo, in particolare in Palestina e Libano. Destabilizzare questo paese significherebbe permettere agli Stati Uniti e Israele di restaurare il loro dominio nella regione, dopo averlo perso, specialmente per i cambiamenti in Egitto”.
Una dichiarazione degna di nota, dato che Washington ha tolto l’appoggio al suo vecchio alleato Mubarak, minando così la sua posizione nella regione, ma trae beneficio dalle sventure di Assad, delle quali non ha colpa. Al contrario, l’amministrazione Obama dimostra una chiara delusione per la fioritura delle democrazie nella “primavera araba” e per il fatto che Assad è un partner cruciale per la pace. Nella corsa al ribasso, Damasco è arrivata prima di Washington. Ecco perché la previsione di Anwar Raja è corretta. Lo scenario sarebbe comico se non fosse per il costo in vite umane.
Disgraziatamente, i cadaveri degli arabi continueranno ad accumularsi fintanto che i media occidentali troveranno noioso fotografarli e finché “le coscienze del mondo” si annoieranno leggendo i resoconti di queste morti. Inutile dire che gli islamici cercheranno di sfruttare il caos, ma anche loro hanno bisogno di mangiare quasi quotidianamente. Per il terzo dei siriani sotto la soglia di povertà, l’aumento a marzo del prezzo di un litro di olio da cucina è stato equivalente a un quarto del guadagno quotidiano. Non è tanto la fame quanto l’umiliazione e la disperazione che spinge i manifestanti a tornare per le strade, andando incontro ai fucili delle forze di sicurezza.
Date le circostanze, l’affermazione di Obama secondo cui un accordo tra Israele e Palestina è “più urgente che mai”, suona falso. Quando tutti gli attori della regione saranno in gioco, qualunque cosa Israele possa negoziare con l’autorità Palestinese non avrà senso. Non le bombe o i razzi, né gli spiccioli dati come sostegno economico da un’amministrazione con problemi di bilancio, potranno fermare l’incapacità del regime di rivelarsi come un sintomo del fallimento sociale.
L’autorità Palestinese continuerà a fare campagna per il “riconoscimento” da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un passo insignificante a meno che i grandi poteri lo sostengano. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha già detto ai palestinesi di non agire da soli. Il voto che sovrasta tutti gli altri è quello di Washington. Dato l’enorme sostegno per Israele tra gli elettori americani (63% contro il 15% pro Palestina, secondo un sondaggio Gallup [4]), è parecchio improbabile che Obama voglia imporre alcunché a Israele prima delle elezioni di novembre nel 2012.
E per quel tempo la mappa del Medioriente potrebbe essere piuttosto diversa. Obama, per essere sicuro, vuole concessioni unilaterali da parte di Israele sulle colonie della West Bank per mantenere l’illusione che un processo di pace esista ancora. Ma l’unico bastone che Obama può brandire a Gerusalemme è quello di non usare il veto se i palestinesi dovessero cercare il riconoscimento di uno stato entro i confini dell’armistizio del 1949 presso le Nazioni Unite.
Ma questa minaccia è pressoché nulla. La commentatrice Caroline Glick scrive il 4 aprile [5]:

Il meccanismo perverso consiste nel fatto che anche se (il primo ministro Benjamin) Netanyahu si inchina ai voleri di Obama, tuttavia non eviterà il sostegno americano per l’adesione dei palestinesi all’ONU e il riconoscimento da parte di quest’ultima della sovranità palestinese a Gerusalemme, Giudea e Samaria e Gaza. Lui lo renderà più facile facendolo apparire non controverso. La grande scommessa di Netanyahu in questo caso è di non chiedere a Obama nessun favore. Dal momento che l’Assemblea Generale plausibilmente approverà l’adesione palestinese anche se gli USA dovessero imporre il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la capacità di Obama di prevenire questa manovra è limitata. E il prezzo che lui esige per il suo veto è proibitivo.

Il prezzo che Obama pagherebbe per far fuori Israele sarebbe ancora più proibitivo.
Niente di tutto questo sarà piacevole per Israele, che potrebbe subire considerevoli danni dai razzi di Hezbollah nel caso ci fosse un’altra guerra nel nord. In quel caso, Israele avrà l’opportunità di combattere e di vincere definitivamente. Non desidero che ci sia alcuna guerra ma vale la pena ricordare che niente è più vincente di una vittoria. Una vittoria militare israeliana getterebbe più discredito sugli islamici nel mondo arabo di tutte le elezioni del mondo.

Spengler
Fonte: www.atimes.com
Link: http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/MD12Ak01.html
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RENATO MONTINI
Note:
1. Obama and Israel – It Gets Worse, gennaio 2008.
2. Samantha Power’s Power 5 aprile 2011.
3. Behind the Tensions in Syria: The Socio-Economic Dimension 29 marzo 2011. 4. Support for Israel in U.S. at 63%, Near Record High 24 febbraio 2010.
5. Richard Goldstone and Palestinian statehood 4 aprile 2011.